Vuoi vedere che Gallinari finalmente vince senza giocare?

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Sbagliereste, e di grosso, se pensate che son stato sveglio tutta la notte per vedere la Nba. Anche se per i Boston Celtics ho sempre avuto un debole e non certo perché ci gioca, si fa dire, Danilo Gallinari, che anche ieri sera alla Kaseya Center di Miami era in camicia bianca, giacca blu e cravatta bordeaux (col nodo fatto da cani) seduto in panchina accanto a Jaylen Brown (26 punti e 10 rimbalzi) e come lui in piedi, pallido e ingessato, quando Jimmy Butler ha segnato il terzo tiro libero consecutivo della pazzesca rimonta (103-102) degli Heat ormai a tre secondi dalla conquista del titolo della Eastern Conference. Né oggi avevo in mente di scrivere sul mio blog dovendo nel pomeriggio andare alla Segafredo Arena di Bologna per vivere dal vero la prima di Virtus-Derthona e non sapendo ancora niente, o quasi, di ArmaniBanco di Sardara che avevo smesso di guardare sul 19-5 al minuto quattro di una semifinale già segnata tra Ettore Messi(n)a e Pierino Bucchi, gli allenatori più tristi del mondo che non ridono neanche se fai a loro il solletico sotto le ascelle con una piuma di pavone reale.

Non vi tengo comunque oltre sulle spine e vi spiego allora subito la ragione principale per la quale straordinariamente m’interesso di uno spettacolo che diverte i ragazzini che si mettono le dita su per il naso e i pensionati che hanno tempo da perdere quando non s’incantano davanti ai lavori di restauro del vecchio condominio dietro l’angolo di casa che sta insieme con lo sputo. La pallacanestro intesa come sport di squadra, dove anche si difende o almeno ci si prova, e non ci si gonfia alla Del Piero (in palestra?) come i  vostri idoli, Luka Doncic e Nikola Jokic, è tutta un’altra cosa. Come sostiene da secoli il mitico Sergio Tavcar e per questo sono sempre andato d’amore e d’accordo con lui e con pochi altri che s’occupano ancora della palla nel cestino. Quindi non certamente coi giornalisti del Varesotto che pendono dalle labbra del presidente che da più giovane aveva una passione (corrisposta) per Antonella Clerici o da quelle di Luis Scola che ha trovato l’America nel BelPaese della Gazzetta dello sport e dell’Inter che ieri è tornata a occuparsi dopo una settimana di playoff. Deo gratias.

Sapevo che Ciccioblack Tranquillo non avrebbe urlato commentando gara 6 di Miami-Boston perché sarebbe andato a cena dopo gara 1 di Milano-Sassari con il presidente-allenatore dell’Olimpia che è riuscito a far baruffa persino con il mite Ario Costa in un’intervista nella quale piange sulla spalla del tappetino Paolo Bartezzaghi e s’arrabbia se lo danno favorito nella corsa tricolore ad un scudetto, quello della terza stella, che mi sono già permesso invece d’assegnargli sin dall’ultima domenica d’aprile quando Carmel(it)o Paternicò al Palaverde non ha fischiato il re degli sfondamenti di Adrian Banks su Shengelia, ma un 2+1 in favore di Treviso che ha ucciso Don Gel Scariolo e in pratica regalato il primo posto nell’irregular season all’Armani. Che così giocherà l’eventuale bella di finale al Forum. Dove sarei proprio curioso di vedere quali arbitri Citofonare LaMonica e Ettore Messi(n)a o, meglio, mi correggo, il Messia e la Monica sceglieranno per dirigerla. Spero non Paternicò, perché sarebbe troppo, e nemmeno i preferiti del catanese Begnis e Mazzoni, né gli indigesti Attard e Lanzarini.

Or dunque, dopo il caffelatte con una fettina di strudel, restando a letto perché domenica è sempre domenica, come cantava il grande Mario Riva, non mi sono visto la registrazione della semifinale tra i campioni d’Italia scatenati da un fantastico Johannes Voigtmann e gli appagati sassaresi d’un indecente Eimantas Bendzius riproposto da Bucci, gran amico di Ettore, al posto del meraviglioso Ousmane Diop, il centro senegalese di formazione italiana che Giannino Petrucci e Salvatore Trainotti si sono dimenticati di portare in azzurro per correre dietro vanamente a Paolo Banchero che, se viene in Italia, mi faccio prete. Ma mi sono perso dietro a Miami-Boston che almeno Bonfardeci, o anche undici, e So-na-lagna Soragna ti raccontano senza scassarti i timpani e i marroni come Ciccioblack. Ebbene per farla breve, e non correre poi in autostrada sulla Padova-Bologna dove c’è l’autovelox ogni cinque chilometri, e mio figlio ha collezionato 18 punti sulla patente, non ci crederete, ma alla fin fine i Celtics hanno trascinato la serie a gara 7 e così saranno, tra domani notte e martedì, la prima squadra tra altre centocinquanta della storia dei playoff della Nba a passare il turno dallo 0-3.

Come hanno fatto a 3’’ dal tabellone che arrossisce? Ve lo racconto subito. Rimessa nella metà campo degli Heat di Derrick White (nella foto) per Marcus Smart che sparacchia a canestro: la palla rimbalza due volte sul ferro che ingenerosamente la sputa, come dicono quelli che parlano bene, ma su di questa s’avventa lo stesso Whithe che in tap-in segna il 103-104 a un centesimo di secondo, forse anche meno, dal 48esimo minuto. Giusto così. Perché i Verdi d’Irlanda avevano dominato gara 6 raggiungendo per tre volte anche la doppia cifra di vantaggio e se avessero perso dovrebbero ora prendersela con la ripresa presuntuosa di Jayson Tatum (31 punti, ma 25 nel primo tempo) e coach Joe Mazzulla che ha chiesto il challenge facendosi un clamoroso autogol perché gli arbitri sul 100-102 hanno giustamente poi assegnato tre tiri dalla lunetta a Butler anziché due per il fallo di Al Horford  oltre la linea delle triple. E così se i Celtics faranno fuori gli Heat e poi i Denver Nuggets di Jokic in finale permetteranno al nostro Gallo, che ha un contratto biennale pur sempre da 13 milioni di dollari, di togliersi di dosso l’etichetta del più grande perdente di successo della nostra pallacanestro stabilendo anche il primato mondiale d’essere campione Nba senza aver giocato (per infortunio) nemmeno una partita.

Me ne stavo dimenticando: l’Armani ha ieri sera travolto, come non era in fondo difficile immaginarlo, Sassari per 95-72, con 22 punti del tedesco ex Cska e 9 addirittura di Stefano Tonut che Messi(n)a ha fatto giocare più del solito forse per un dolorino al ginocchio che ha avvertito Shavon Shields e sul quale il catanese di Mestre potrà piangere, se vuole, anche per due o tre settimane sulla spalla di Bartezzaghi o di Tranquillo, ma pure, se preferisce, di Piero Guerrini o di Andrea Barocci.