I miracoli di Garcia, Kaymer e Rose sono la magia della Ryder

Spiegare a un calciofilo, ma anche a un baskettaro, cosa sia la Ryder Cup, è nove volte su dieci una fatica purtroppo inutile, ma per uno su dieci val la pena comunque di tentarci. Ricordando come premessa che il duello di swing e putter tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America, che si affrontano ogni due anni, una volta nel nostro continente e un’altra nel loro, da stamane a Gleneagles, in Scozia, sui fairway e i green disegnati dal mitico Jack Nicklaus, è tra tutti i grandi eventi dello sport il più seguito in tivù sul pianeta terra dopo solo i Mondiali di football e i Giochi olimpici estivi. Più di una finale di Wimbledon o di Coppa Davis. Per restare nel tennis. O della sfida per il titolo Nba nella pallacanestro. Ci hanno provato, nei giorni scorsi, tra una partita di serie A e un anticipo o un posticipo, un cross di De Sciglio e una doppietta di Belotti, anche due buoni amici: Daniela Cotto sulla Stampa e Enrico Franceschini su Repubblica. Daniela ha puntato tutto sul fascino del numero uno al mondo, il ricciolino d’Irlanda, Rory McIlroy, l’erede di Tiger, che, nella terra dove il golf, è nato sfiderà anche il fantasma di Woods. Che pure a Gleneagles non si è fatto vedere nemmeno come vice del capitano Tom Watson. Senz’altro un’ottima chiave di lettura del torneo che prende il nome dal ricco mercante inglese, Samuel Ryder, che se lo inventò nel 1926. Anche se proprio un giornale degli States ha in settimana titolato: no Tiger, no problem. Come dire che Woods sarebbe stato solo d’impiccio tra i piedi dei dodici apostoli a stelle e a strisce. Ma chi non conosce, anche nell’orticello del basket, Tiger Woods? Forse lo spaesato Pietro Colnago che pare lì per caso. Enrico da Londra ha invece puntato molto su Sir Alex Ferguson che sarà il motivatore del team Europa in Scozia con l’obiettivo probabile d’incuriosire almeno il lettore del calcio che sa vita morte e miracoli del santone, che sulla panchina del Manchester United ha vinto più di una trentina di trofei in un quarto di secolo, e quasi un tubo di birdies e bogeys, di ferri otto o sette, di ibridi e rough. Che in Italia è il “raf” come lo scriveva un asino di giornalista di campagna. Insomma l’erba alta ai lati del fairway. Ora non credo che Ferguson servirà a qualcosa se non a dar colore a una manifestazione che è già sfarzosa di suo. Così come non penso che Mc Ilroy e Poulter, il mio occhio destro, mentre il sinistro è sempre Sergio Garcia, abbiano bisogno che qualcuno li aiuti a capire cosa significhi vincere per la terza volta di fila una Ryder Cup. Semmai saranno loro a motivare i tre rookies Gallacher, Dubuisson e Donaldson. E sarà bello, come ha sottolineato il bravo corrispondente di Repubblica da Londra, vedere scozzesi e inglesi, che solo una settimana fa stavano per separarsi, ora uniti dall’Inno alla Gioia che Beethoven non avrebbe mai immaginato d’aver composto anche per cementare l’unione tra un francese, uno svedese, uno spagnolo e un danese che “non entrano in un bar come in quelle barzellette, ma bensì in un campo da golf”. Come stamattina Justin Rose con i guanti da sci quando a Gleeneagles non erano neanche le sette e mezza di una mattina molto fredda e le tribune erano già strapiene di un tifo più caldo di un caffè bollente. Un tifo da stadio del football ha detto uno dei commentatori di Sky neanche lui sapendo rinunciare ai paragoni con il calcio stupidi quanto efficaci e coinvolgenti. E comunque la Ryder non va spiegata e forse nemmeno raccontata: va solo vista e vissuta attraverso le immagini e le sensazioni che si colgono attimo dopo attimo, buca dopo buca. Cominciando dalla prima dove, col secondo colpo, Martin Kaymer, l’eroe della passata edizione a Medinah, nell’Illinois, centra quasi la bandiera con la pallina che le gira intorno. E la gente di Braveheart e d’Europa che non sta più nella pelle. O alla quattro: un’uscita di classe pura, ma soprattutto col cuore di Sergio Garcia dal fondo del bunker facendo rotolare la pallina in green giù per il gradino direttamente in buca. E gli americani? Per ora stanno a guardare, o quasi, sotto 3-5, ma la Ryder Cup si vince non con i match play di doppio, le otto quattropalle e gli otto foursomes del venerdì e del sabato, ma domenica nei dodici singles. Testa a testa. Dove lo sport degli imbattibili egoisti diventa il più avvincente gioco di squadra al mondo.