Le mie interviste di basket: Alberto e Stefano Tonut

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Dall’ultimo numero di SuperBasket. Prima di Pasqua. E prima di un’altra bella storia della nostra pallacanestro che vi andrò presto a raccontare. Sperando che vi incuriosisca come questa dei Tonut padre e figlio nella splendida cornice dell’affascinante Trieste.
Quando mi stacco (dal)la bretella e scendo per la costiera, vedo il Golfo di Trieste e mi si apre il cuore. Succede ogni volta che vado nella città della Barcolana. Lo scintillio curioso del mare, le petroliere all’orizzonte che non fanno rumore, i gabbiani che volano a pelo d’acqua cercando cibo: sensazioni uniche e generose. E m’emoziono come faceva il Principe Rubini, che qui è nato, quando si ricordava dell’oro di Nantes e parlava della nazionale di Sandro Gamba. Nella quale ha giocato Alberto Tonut all’età che oggi ha suo figlio Stefano: ventun anni compiuti a novembre. Il sette, come il suo numero di maglia in azzurro. Danilo Gallinari è invece fissato con l’otto. Il sole negli occhi, una brezza leggera e la grande fortuna d’aver beccato una giornata meravigliosa. All’appuntamento di mezzogiorno (e mezzo) ai Tre Merli sono arrivato per primo. E pure in anticipo. M’accade di rado e me ne compiaccio. Così trovo il tempo per guardarmi intorno. Sulla terrazza che s’affaccia sul golfo. Annusando il ritorno della primavera. Il castello di Miramare, in punta di scogli, non è lontano. Anzi, quasi lo tocco tanto è azzurro e limpido il cielo. E le cozze che emergono dall’acqua sono come lucertole che si scaldano tra i ciottoli. Mi vien quasi voglia di fare un tuffo in mare e di mangiare fuori. Ma poi mi dimentico di proporlo ai Tonut, padre e figlio, che arrivano insieme. Stefano alla guida, Alberto al suo fianco. Stefano ha gli occhi azzurri. Come la madre Laura che è rimasta a casa con Tania, la sorella maggiore. Parleremo di pallacanestro, e d’altro, per un paio d’ore. Non esagero. Serenamente. E il tempo intanto vola. Seduti a tavola. Gustando il pesciolino fresco che ci ha proposto Francesco. Ordiniamo tutti e tre eguale: spaghetti allo scoglio, un amore, e fritto di calamari, curiosamente raccolti in un cartoccio di pane. Come si offrono le caldarroste ad autunno nei coni di giornale. Francesco si scusa: di basket ne mastica poco. Strano. Perché Trieste è città di pallacanestro: competente e praticante. In compenso sa tutto di calcio: è tifoso della Sampdoria e amico, ci racconta con orgoglio, di Vialli e Mancini. E anche di Beppe Dossena. Solo un quartino di prosecco. Poi devo guidare. Acqua minerale senza gas per Alberto. Un’aranciata per Stefano. A cui finalmente trovo un difetto. L’aranciata con i calamari che neanche Dindondan o D’Antoni rischierebbero d’abbinare: quasi una bestemmia. Per il resto è un ragazzo d’oro del quale sarò d’ora in avanti un gran tifoso. Stefano non ha grilli per la testa. Né un solo minuscolo tatuaggio, un piercing. Che dico? Neanche un orecchino. “In discoteca ci sono andato al massimo un paio di volte. Non mi piace” confessa e non faccio fatica a credergli. Alberto se lo mangia con gli occhi. Che sono verdi come quelli dei gatti.
Attacco io con una domanda a Stefano che non lo imbarazza: cosa ti ha raccontato di me tuo padre che chiamavo Biancaneve perché si specchiava della sua beltà sotto canestro? Ride. “Lo so e l’ho pure letto da qualche parte. Forse sul suo blog. Mi ha detto però che lei è una persona diretta che non fa sconti e non sparla alle spalle”. Alberto approva con il capo. Poi si difende: “Solo perché mi aggiustavo spesso con le dita il ciuffo ribelle?”. Non soltanto: anche e soprattutto perché avresti potuto dare molto di più. Ora mi guarda storto, ma senza rancore. “Un’etichetta che comunque mi sono portato dietro tutta la carriera”. Quasi mi sgrida. E allora spiego a Stefano che suo padre aveva tanto talento. Forse anche più di lui. Ed era anche assai permaloso. Come del resto lo sono io. Però, però, insisto, a volte, sapendo d’essere bello ed elegante, e d’avere un tiro morbidissimo, faceva la ruota come i pavoni, si prendeva qualche pausa e magari si dimenticava di difendere. Non è forse vero? “Non proprio”. E poi hai sempre giocato nella squadra sbagliata. “Sarebbe a dire?”. A Livorno negli anni in cui doveva vincere Milano o, in seconda battuta, al massimo Pesaro. E a Cantù quando hanno cominciato a vincere Treviso e Bologna. Ad Alberto si legge subito negli occhi che gli è piaciuta questa mia inattesa confessione. Ed infatti non lo nasconde. “Ammetti allora che, a parti invertite, se Roberto Premier avesse avuto la maglia dell’Enichem e Andrea Forti quella della Philips, nessun arbitro al mondo ci avrebbe negato i due punti dello scudetto segnati contemporaneamente al suono della sirena?”. E’ molto probabile. “Bravo. Sei onesto, mi piaci, ti meriti un libro: il mio che ho scritto qualche anno fa. Non so se già ce l’hai?”. No, grazie. Lo leggerò appena troverò il tempo. Ma intanto mi fai la dedica. E comincio a sfogliarlo. Mi ricordo così che anche Alberto portava il numero sette davanti e dietro la maglia. “Vedi, in questa foto stiamo tutti festeggiando lo scudetto nello spogliatoio con l’indice e il medio della mano aperti a vu nel segno della vittoria”, si scalda e si capisce che quel giorno di giugno dell’89 non lo dimenticherà mai. Anzi, gli resterà sempre qui sul gozzo. “Per venti minuti siamo stati campioni d’Italia. Poi l’arbitro Zeppilli ci tolse lo scudetto”. Tolse o rubò? “Tolse. Lo scudetto ce lo rubò Milano”. Il suo libro, scritto a quattro mani con Severino Baf, ha un buon titolo: Non ho ancora chiesto time-out. Difatti porta “assai ben”, come si dice da queste parti, i suoi 53 anni di mulo innamorato della sua Trieste. Nella quale ha giocato anche otto campionati. Ad inizio e a fine carriera. Come Stefano che all’inizio mi dava del lei e ora del tu: evidentemente l’ho messo a suo agio. Leggo la dedica: a Claudio, amico di mille battaglie sportive e verbali. Abbiamo fatto finalmente pace. Era ora. E ne siamo contenti. Ma adesso parliamo del figlio. Prima che mi commuova di nuovo. Come il Principe Rubini che affettuosamente non sopportava gli amici triestini che lo fermavano per strada e ogni volta gli domandavano: “Rino, ti te ricordi?”. Cosa? Quando la principessa Sissi soggiornava al Castello di Miramare e il marito austero, barba e baffi foltissimi, guidava il calesse? Qui, mi raccontava, aspettano ancora che torni Francesco Giuseppe. E intanto il tempo passa e loro sono invecchiati. Caro Principe, mi manchi davvero. Quando mi prendevi sotto braccio, ci appartavamo e provavi a sussurrarmi con quella inconfondibile voce baritonale: “Vedi quello? E’ proprio uno scemo, ma non dirglielo. Faglielo però sapere a nome mio”. Ovviamente aveva un debole per Alberto Tonut, come per Saturnino Andrea Niccolai, e sarebbe andato giù di testa anche per Stefano. Perché il muletto ha tutte le qualità che sarebbero piaciute al più grande uomo e personaggio della storia della pallacanestro italiana.
In testa l’amore per il basket e per la maglia azzurra. Poi la serietà, il puntiglio, la voglia di crescere. Rimanendo umile. E difatti glielo mando subito a dire a Tanjevic: grande Boscia, per una volta ti sei sbagliato. Stefano non può rimanere neanche un minuto di più qui a Trieste. Il suo percorso in Gold l’ha già fatto e (quasi) concluso. Ora deve solo spiccare il volo scegliendo in quale squadra di serie A crescere e maturare. Rivela Alberto: “Me l’hanno chiesto dodici società”. Praticamente tutte. “Ma non abbiamo ancora deciso. Vedremo”. Anche Stefano è d’accordo con me: “Il prossimo anno voglio giocare in serie A”. Sì, ma dove? Non saprei proprio consigliarlo: forse la Virtus Bologna di Renatone Villalta più della Reyer Venezia di Napoleone Brugnaro. “Devo essere sincero: il mio sogno è Milano, ma anche capisco che lì sarei chiuso da Hackett e Gentile, i miei idoli”. E allora? L’importante, gli dico, è che trovi un buon allenatore che ti aiuti a migliorare: la passione ce l’hai, ma non basta. Al volo solo una fugace domanda tra me e me: ma ci sono ancora bravi insegnanti e educatori di basket nel BelPaese? Pochissimi. Tanto che si possono contare sulle dita di una mano. Gli altri pensano esclusivamente a vincere. Ma lo scudetto una volta lo vinceva sempre Siena. E adesso lo vince solo Milano. Gli altri perdono tutti: è lapalissiano.
Domenica Stefano ha giocato al PalaRubini contro la svogliata Torino dei Mancinelli e l’ho seguito attentamente in televisione. Il tiro proprio non gli funzionava. Succede. Ma erano tutte frecce che aveva nell’arco e che doveva sparare. E comunque ha giocato bene. Da vero leader. Difendendo e attaccando senza paura per 35 minuti. Anche troppi. Raccogliendo i frutti dalla lunetta e scatenando Murphy Holloway. Che ha un simpatico cognome ed è molto più cucciolone di Stefano. Che lunedì e martedì è stato a Roma al raduno della nazionale. Con Artiglio Caja. Che lo adora. Pure lui. E nella notte è tornato felice a Trieste. Ha sete d’imparare più che fame di guadagnare. E la sua estate ideale non è ai monti o ai Caraibi, ma una maglia azzurra sotto il cuscino. Ci pensi ai prossimi Europei? Gli domando a bruciapelo. “Come no? Voglio e chiedo di potermi confrontare con Della Valle e Michele Vitali. Li stimo, ma non li temo. Perché vivere un mese assieme a Belinelli e Gallinari, Datome e Bargnani, potrebbe essere per me, oltre che un sogno e un piacere, soprattutto un inestimabile tesoro”. E’ juventino, tifa Kobe Bryant e gli piace da impazzire Ginobili. Cosa vi avevo detto? Faccio fatica a trovargli un difetto. E’ alto un metro e novantadue. Otto centimetri meno del padre. A Trieste gioca ala piccola, ma è una guardia: non facciamo ancora confusione. Altrimenti qui si torna indietro come i gamberi. Quando di lui si diceva che era solo il figlio di Tonut. “Sì, insomma: un figlio di papà. E mi faceva un sacco male sentirlo dire”. Senza un ruolo ben preciso. E poi era troppo, tanto piccino. “Così Stefano mi frignava sulla spalla mentre in Vespa lo portavo all’allenamento” ora racconta Alberto. “Avrebbe voluto infatti anche smettere perché non lo facevano più giocare. E poco o niente lo consideravano i suoi allenatori”. Autentici geni e straordinari psicologi: non ci piove. “Tre anni fa – ora confessa pure Stefano – ho pensato di tornare anche alla mia prima passione: il calcio. Dove me la cavavo pure bene da piccolo. Poi invece, tre anni fa, sono andato a Monfalcone”. E lì è risbocciato come una rosa. Lo dico sempre: nella vita bisognerebbe tutti avere il sedere di quel gran culo di Cenerentola. O di Max Allegri, amico di Alberto nelle stagioni livornesi. E la pallacanestro italiana, checché se ne pensi, almeno con Alberto e Stefano Tonut è stata fortunata. Ah, dimenticavo. A solo uso e consumo delle mule di Trieste che a fine partita lo assaltano per avere un autografo e, se ci scappa, pure il numero di cellulare. Stefano ha da tre anni la morosa: Martina, un cicinin gelosa, molto carina e con gli occhi ovviamente celesti. Così come non posso non ricordare che i calamari fritti dei Tre Merli erano davvero dolci e croccanti. Come biscottini.