Le mie interviste di basket: Renato Villalta

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Nel cassetto avevo anche questa intervista a Renatone Villalta che è uscita sul numero di febbraio di SuperBasket che adesso vi ripropongo pari pari nel mio blog perché mi sembra, e non lo dico solo io, ancora molto carina.
Quella sua maglietta bianca è ancora lì. Nel cassettone sotto al letto. Stirata, piegata e profumata. Bianca con i bordi azzurri e il numero dieci. Una volta l’ho fatta indossare a mio nipote Dodo che ha da poco cominciato a palleggiare nella stessa palestra di Mestre dove giocava la nostra Duco: gli arrivava sino ai piedi e gli copriva le scarpe. Nella primavera del 1974, più di quarant’anni fa, caro Renato, stiamo diventando vecchi, e non lo dicono solo i capelli bianchi, la Duco di Mestre, allenata da Augusto Giomo, conquistò a Brescia la serie A per la prima volta. E Villalta mi regalò la sua maglietta tutta ancora madida di sudore. Sì, proprio quella. Bianca con il bordi azzurri e il numero dieci sulla schiena. E quattro lettere sul petto: Duco. Il tempo vola. Ma l’amarcord almeno è dolce. E comincia da lontano. In un negozio di Maserada sul Piave, che nelle generose campagne trevigiane si chiamava il “casoin”, dove si vendeva di tutto, dal quaderno a quadretti al prosciutto cotto, e “mia madre mi aveva mandato a comprare non mi ricordo più cosa. Forse del formaggio per la nonna. Come Cappuccetto Rosso”. Ridiamo insieme. E qui inizia la favola. Dove non c’è il lupo, “ma un arbitro, amico di Gianni Giomo, che mi domanda se mi sarebbe piaciuto giocare a basket. Boh, sì, forse, magari: gli risposi”. Probabilmente arrossendo. Del resto Renato aveva solo tredici anni ed era già alto un metro e 93 centimentri: tutti lo guardavano e lui un po’ se ne vergognava. Nessuno comunque l’ha mai chiamato Renatino. Nemmeno per sbaglio. “Per farla breve il giorno dopo si sono presentati in casa l’arbitro e Gianni per parlare coi miei genitori e convincerli che il basket sarebbe stata la mia fortuna”.
Ci indovinarono: che ne dite? Ma la fortuna non mai cade dall’albero ed ecco allora una giornata-tipo del ragazzo Villalta che Giomo porta con sé a Mestre, dopo un anno di Treviso, “il palazzetto Coni, sui viali, e il Sacro Cuore, dove giocavo all’aperto tutti i pomeriggi con Paolo Gracis, fratello maggiore di Andrea, e Giorgio Giomo, fratello minore di Gianni, un po’ più grandi di me, ma non più alti. Avevo quattordici anni e frequentavo la prima geometri a Paese. La sveglia suonava tutte le mattine, tranne la domenica, alle sei. Prendevo l’autobus in piazza a Maserada e poi a Treviso per arrivare a Paese. Quattro cinque ore di scuola, poi alla due e mezza, questo me lo ricordo bene, avevo il treno che mi avrebbe portato alla stazione di Mestre. Qui attraversavo la ferrovia e a piedi raggiungevo la palestra della Montedison, a Marghera, dove mi allenavo con gli allievi e gli juniores. Sin dopo le sei”. Chissà che fame? “Avevo sempre una fame boia. Mia madre mi preparava anche i panini con il formaggio o il salame che mi portavo dietro nella sacca. Così, prima di sera, sapevano più di suole di scarpe che d’altro”. E a cena? “All’ora di cena mi allenavo ancora. Stavolta con la prima squadra, che allora faceva la serie B e si chiamava Leacril, e alla palestra Coni di Mestre, in via Olimpia, che nel frattempo avevo raggiunto in filovia. Un’altra doccia, sempre di fretta. E per fortuna che Gianni mi portava a casa in auto. Così almeno alle 11 potevo andare a letto e ti giuro: in un minuto, anche meno, prendevo sonno. Ovviamente quell’anno mi bocciarono: non avevo mai tempo per studiare. E non solo a me passò anche per la testa di lasciar perdere con la pallacanestro. Ma fu a quel punto che Giomo e i miei genitori, che non finirò mai di ringraziarli per l’opportunità che mi hanno ancora concesso, decisero che andassi ad abitare Mestre. In viale Garibaldi, presso una famiglia molto per bene che m’affittò una camera che dividevo con Alberto Facco che non so se ti ricordi”.
Come no? Veniva da Padova, era un genio e si alternava con Franco Dalla Costa nel ruolo di playmaker in quella Duco di Giomo che raggiunse la serie A nel ’74. “Bravo. E lo stesso anno presi anche il diploma di geometra”. Bravo, adesso te lo dico io. E poi due anni a Castelfranco in A1 e in A2. Ricordo anche che veniva spesso in palestra a spiarti Dan Peterson con i capelli lunghi: sembrava un hippie che aveva dimenticato a casa la chitarra. O mi sbaglio? “In verità mi fecero la corte pure la Fernet Tonic, la terza squadra di Bologna, che era la Gira, ma soprattutto Milano e Adolfo Bogoncelli, il presidente delle scarpette rosse”. Questa mi era sfuggita. “Bogoncelli buttò sul piatto anche una proposta incredibile”. Che adesso chiameremmo indecente, però almeno quel braccio di ferro lo vinse l’avvocato Porelli per una cifra record a quei tempi: 400 milioni di lire. Era il 1976 e il geometra Villalta aveva 21 anni. Più il prestito di Pietro Generali e Aldo Tommasini, il padre di Claudio. In fondo il mondo del basket è più piccolo di quanto si creda. Tredici stagioni alla Virtus. E due a Treviso. Tre scudetti. L’oro europeo di Nantes e l’argento olimpico di Mosca. Dopo Luigi, razza Piave, oggi 90 anni, una roccia, e Augusto Giomo, che tutti chiamano Gianni, un terzo padre: Gigi Porelli. “Ma non dimenticherei sua moglie, la Paola, che mi è stata vicina, specie nel mio primo anno a Bologna, quando mangiavo da lei in foresteria”. Eri il suo cocco e ti voleva bene come un figlio: ora posso confessartelo. Avevo giurato di non dirtelo prima che lei morisse. E così ho fatto. Un velo di tristezza ci sorprende e insieme cambiamo allora in fretta discorso. Due figli: Andrea di 33 anni e Virginia di 24. Due matrimoni: il primo con Patrizia, il secondo con Michela. Con la quale ha festeggiato i 60 anni in Costa Azzurra il 3 febbraio. Appena tre giorni. Tra un’assemblea di Lega e la partita vinta con Cantù. Già nonno (ora) da un anno. Di Aurora, un bel pesciolino nato il primo d’aprile a Roma. “Ma la vedo poco e lo so che sbaglio. Ma come faccio?”. Già, il tempo è tiranno: lo diceva qualcuno che ora non ricordo.
Intanto la Granarolo vola verso i playoff: un sogno. “Lascia che mi tocchi da tutte le parti. Ho paura dei complimenti. Anzi, proprio mi terrorizzano”. Un uomo pragmatico. “Primo: non fare mai il passo più lungo della gamba”. Secondo? “Dobbiamo ancora fare i punti per salvarci”. Il terzo punto te lo suggerisco io. “Ovvero?”. Come diceva Totò: ma mi faccia il piacere. Di Gigi Porelli ammirava “il carisma, la trasparenza assoluta e la credibilità che si ottiene in un modo solo: mantenendo la parola”. E in questo Renato un sacco gli assomiglia. “Sei tu adesso che esageri”. E’ probabile, però in certi momenti c’è poco da fare: mi ricordi l’avvocato. Come quando ti chiedo se abiti sempre all’ombra delle Torre degli Asinelli e mi rispondi di sì. E aggiungi: “Questo è un tesoro al quale non potrei e non saprei più rinunciare”. Perché? “Perché Bologna io la vedo ancora molto bella e la sua qualità della vita ancora molto elevata”. Tale e quale all’Avvocato che, quando da lontano vedeva San Luca, si sentiva già a casa e s’emozionava. Eppure veniva da Mantova ed era di scorza dura. E voleva che tutti i giocatori della Virtus abitassero nelle vicinanze del Madison di piazza Azzarita. “E aveva ragione perché così non si disperdevano tempo e energie per andare ad allenarsi. E si respiravano gli umori e gli odori di una città che viveva di pallacanestro”.
Eppure Renato nasce in campagna. E i genitori erano mezzadri. Prima che il padre andasse a lavorare in fabbrica nella cartiera dei Monti. E ora si è innamorato del centro di Bologna. Dove non si perde neanche un bambino. Come cantava Lucio Dalla. Un altro grande amico di Torquemada Porelli. No, forse era Berlino. Ma non importa: l’importante era che voi capiste cosa volevo (e voglio) dire. Difatti sono ancora straconvinto che l’Avvocato lasciò la Virtus nella mani dell’Alfredo Alfredo (due volte) Cazzola nello stesso anno in cui, era il 1989, Renato andò a giocare nella Benetton anche perché non avrebbe mai pensato una Virtus senza Villalta. Neanche questo gli ho chiesto, ma sono cose, queste, che si sanno, si capiscono e non si domandano. Così come non ho mai pensato che, giocando due anni a Treviso prima di smettere, Renato potesse ripiantare le radici nella terra dove è nato. Gli sarebbe stata molto stretta. E lo conoscevo troppo bene per potermi sbagliare. Anche se non sempre siamo andati d’amore e d’accordo. E lui è stato lontano dal basket una ventina d’anni. Io un po’ meno: solo quattro o cinque. E difatti ho molti più nemici di lui. Anche se nemmeno lui scherza. Faccio tre nomi: Minucci, Proli e Marino. Colpito, ma non affondato. E si difende come è giusto: “Con Minucci non avevo nulla di personale, ma i miei principi etici non combaciavano con quelli di chi invece lo aveva votato presidente di Lega”. E qui ho sentito l’ennesimo suggerimento del professor Romano Prodi che spesso, al palasport di Casalecchio, siede vicino a Renato e con lui parla fitto fitto. Procediamo: e Proli che ti ha fatto? “Nulla, ma non ho mai capito perché prima era uno dei principali antagonisti di Ferdinando Minucci e poi l’ha sostenuto a spada tratta”. Perché questa è la politica, caro Renato, avrei potuto rispondergli: di destra o di sinistra. E tu dovresti ben saperlo. I boyscout brulicano, pullulano, vipereggiano infatti anche sotto le tende della nostra pallacanestro e non soltanto nelle aule di Montecitorio. E infine Fernando Marino. “E’ lui, mi dicono, che parla male di me e non io di lui”. Se è solo per questo, vuoi che ti faccia l’elenco di quanti m’ammazzerebbero solo perché sul mio blog di satira li prendo per il sedere? E comunque non la penso sempre uguale a te. Per fortuna. E per esempio ti vedrei veramente bene nei panni del presidente-manager di tutte le società di serie A. “Stai forse scherzando? E’ l’ultima cosa che farei oggi al mondo”. No, non sto bluffando: finalmente Gianni Petrucci avrebbe pane per i suoi denti. Né vedrei male sempre nelle vesti di presidente di Lega anche Livio Proli. E di nuovo parlo sul serio. Specie adesso che non è più il numero uno di Milano. Però qui il discorso si farebbe troppo lungo e siamo al telefono ormai da quasi un’ora e mezza. E poi so che devi scappare a correre. “Magari. Dopo la famiglia e gli amici, metto la corsa”. Prima anche del basket? “Ma certo. Quando nel 2002 ho corso la prima delle mie sei maratone di New York, all’arrivo piangevo come un bambino ed ero felice come una Pasqua. In questo sport non puoi barare con te stesso e per questa ragione mi piace da morire. Quando infatti si spegne la luce, c’è poco da fare: non vai più avanti. E poi i miei più grandi affari li ho fatti pensando e correndo su e giù per le colline di Bologna. Anche da solo e libero come il sole”. Un’ultima cosa allora: la faresti mai una fusione con la Fortitudo? “Ti rispondo dicendo che un fiume per quanto grande o piccolo ha sempre due sponde”. E tu su quale sponda sei seduto? “Prova a indovinare?”. E magari al tuo fianco c’è Confucio. O forse, meglio ancora, il Professore.