Banchi nuovo cittì e De Raffaele non più sui carboni accesi

5 marzo, mercoledì       D’ora in poi mi divertirò a fare le pulci alla Gazzetta ogni qual volta in cui potrò. Ovvero tutti i giorni se tutti i giorni scrivessi. E invece non scrivo dal mese scorso e non perché non ne avessi avuto voglia, al contrario, ma perché mi sono preso un’altra lunga pausa di riflessione, chiamiamola così, dopo le final eight di Coppa Italia a Torino. Dove ho passato una settimana da Papa. Per il quale prego ogni notte prima d’addormentarmi: non sono un tartufo e quindi non devo più nascondere a 75 anni quel che faccio o penso. Considerando in verità Francesco Bergoglio l’ultimo dei comunisti di questa terra. Come afferma da tempo Boscia Tanjevic, il più grande di tutti. Credente o non credente: non glielo ho mai chiesto, ma non è questo quel che m’interessa sapere da lui. Sono fatti suoi. I miei sono invece anche di vedere quattro incontri di pallacanestro uno di fila all’altro in otto ore e di non annoiarmi neanche un secondo. Anzi. E poi d’andare a cena con Grazie Graziemille Graziella Bragaglio, radiosa e felice presidentessa della Leonessa ben da sedici, dico sedici, stagioni e suo marito, il professor Matteo Bonetti, luminare della schiena nel Bel Paese e squisito compagno di tavola. Partendo dal dessert, ovvero dal fatto che per il pesciolino e per la pallacanestro abbiamo i medesimi gusti.

Matteo, due giorni prima della scorsa Befana, si è simpaticamente presentato al Palaverde durante l’intervallo di Nutribullet-Germani (capolista) sul 50-34 per i trevisani di Frank Vitucci con un Bruno Mascolo davvero super (19 + 9 assist) e un Amedeo Della Valle non da meno (25 punti). Ugualmente di buon umore dicendomi: “Lei non sa chi sono io”. Mi spiace, no. “Sono il marito di Graziella Bragaglio e a tutti e due piacerebbe conoscerla nel caso in cui lei venisse un giorno a Brescia per seguire una partita del suo occhio destro. Che sappiamo sia Della Valle che lei un tempo chiamava Ricciolino. Se non mi sbaglio”. Esatto. Quando aveva ancora tanti capelli e giocava a Reggio Emilia stimolato a farlo per il meglio dal caro Max Chef Menetti. Mentre il Boscia chiamava il figlio del Gatto con gli stivali d’Alba genialmente Amadeus. Prima purtroppo che Della Valle finisse, nel suo secondo anno all’Armani, sotto le grinfie d’Antonio Salieri, il presunto maestro e rivale di Mozart. Pardon, d’Ettore Messi(n)a: perdonatemi la confusione, ma ho pur sempre 75 anni. E mezzo. E dopo i settanta tutti, nessuno escluso, progressivamente rincoglioniscono dimenticando nomi e cognomi. Mentre io per fortuna almeno mi ricordo ogni soprannome che ho dato in carriera ai miei storici personaggi. Da Paron Rocco a Cicciobello Tranquillo che è diventato Ciccioblack da quando ha confessato d’aver preso il nero (e non di seppia) dal Montepaschi di Siena a reato ormai prescritto. Come del resto molti suoi amici della mia, e solo mia, Banda Osiris.

Sa, noi la leggiamo sempre”. Grazie. E così sono stato un venerdì dell’altra settimana loro ospite al Forchettone di Brescia. Dopo il poker di duelli dei quarti di finali della Next Gent Cup under 19 che ho seguito al fianco di Luca Chiabotti, l’ex prima firma del basket nella Gazzetta che fu. Il quale mi ha splendidamente erudito sui fantastici diciottenni dell’Olimpia del Pollo Alberti e di Michele Catalani, uno dei tanti ottimi allenatori del settore giovanile cresciuti alla scuola di Siena di Ferdinando Minucci. Dove sono sbocciati anche Simone Pianigiani, il più bravo, Alessandro Magro, il Fornaretto che ha fatto i bambini coi baffi a Brescia prima del predestinato Peppe Poeta, e Luca Banchi che da settembre, dopo gli Europei di Lettonia, Cipro, Finlandia e Polonia, e perché non di Lituania, Malta, Norvegia e Moldavia?, dovrebbe prendere il posto di Gianmarco Pozzecco proprio adesso che col Poz ci ho fatto pace e mi ero (quasi) convinto che (forse) sbagliavo io a non considerarlo un cittì coi controfiocchi quando è arrivata l’entusiasmante vittoria a Istanbul sulla Turchia di Ergin Ataman, il numero 1 in assoluto per Messer Minucci. Il quale, pensatela pure come volete, è stato comunque per me l’ultimo presidente di una palla nel cesto che, dopo la sua caduta, è appassita al punto che oggi per rianimarla non basterebbero Ippocrate e Galeno, ma neanche Christiaan Barnard con tutta la sua equipe al seguito.

Così come sono ormai certo che Giannino Petrucci lo faccia apposta a cambiare il commissario tecnico degli azzurri quando questo mi è gradito. Lo ha fatto con Sandro Gamba quarant’anni fa quando era ancora segretario della federazione e la nazionale dell’Amato cittì aveva appena vinto la medaglia d’oro agli Europei di Limoges e Nantes e stava per vincere quella di bronzo a Colonia (e non a Nicosia o a Lahti). Sostituendolo con Valerio Bianchini che poi ad Atene nel 2017 arrivò quinto mandando a quel paese tutti i giornalisti longobardi che all’epoca effettivamente gli remavano contro. “Ma chi te l’ha raccontata ’sta storia?” mi chiese Giannino, me lo ricordo come fosse ieri e non l’alba della primavera del 1985. Svegliandomi al telefono che non erano ancora le 7 meno un quarto. “ Il Principe Cesare Rubini che era a pranzo con me ad Arese da Stella e Sandro mentre Pressing, il loro inseparabile cane da guardia, teneva lontano dalla villa i mal intenzionati”, gli risposi lasciandolo di stucco e tornando subito a letto per riprendere sonno con la coscienza a posto.

Lo ha poi rifatto Petrucci con Simone Pianigiani, che resta a tutt’oggi sempre il mio allenatore preferito, avvicendandolo con Ettore Messi(n)a che non si qualificò nemmeno per il Giochi di Rio de Janeiro 2016 nel preolimpico di Torino in cui Petrucci aveva già apparecchiato da mesi una splendida tavolata per festeggiare l’evento. Al quale erano stati ovviamente invitati in pompa magna anche i tre arbitri della finale, invece persa con una Croazia parecchio ma parecchio scarsa, che avrebbero dovuto accomodarsi insieme all’acclamatissimo primo quintetto azzurro allora formato, non so se mi spiego, da Hackett, Belinelli, Datome, Gallinari e Bargnani con nove anni di meno e Nicolò Melli di riserva. Che da quel giorno, il 9 luglio del 2016, caddero tutti in disgrazia a Messi(n)a. E non gli potrei eccezionalmente dar torto dal momento che l’avevano combinata davvero troppo grossa.

Toccherà dunque a Luca Banchi, che ha già lasciato in braghe di tela la nazionale lettone, guidare l’Italia alle prossime Olimpiadi che tornano dopo 44 anni a Los Angeles? Queste sono le mie ultime informazioni. Altre invece indicano in Sasha Djordjevic o in Galbi Galbiati il successore del povero Pozzecco. Che per la cronaca è riuscito a perdere in casa anche con l’Ungheria dopo che con l’Islanda: una tragicomica dietro all’altra. Staremo a vedere. Intanto il Poz prima o poi s’accaserà a Trapani o a Venezia. Però non vi dico quale dei tre tecnici è il mio preferito perché altrimenti è pacifico che con l’eterno Giannino imperante lo danneggerei di brutto. Così come stavolta non mi rimprovero d’aver perso tempo allontanandomi dal mio incipit. Al quale piuttosto subito m’aggancio. Ricordate? Una pulce (rosa) al giorno toglie il medico di torno. E allora ecco la Gazzetta del 22 febbraio scorso che dedica un’intera pagina alla “Partita del maestro”. Che poi sarebbe ed è il mitico allenatore di rugby transalpino Pierre Villepreux. Il quale avverte: “Attenta Francia, la mia Italia è cresciuta molto”. Infatti un giorno dopo, nel Sei Nazioni dell’Olimpico full house o sold out, come dicono quelli bravi che sanno l’inglese, gli azzurri del rivoluzionario argentino Gonzalo Quesada si sono beccati una solenne batosta dal quindici del meraviglioso Antoine Dupont che hanno per un bel pezzo – spero – sotterrato le loro fragili vanità sbriciolate di fronte ad un meno 49 (24-73!) e a undici mete dei galletti che dovrebbero soltanto farli arrossire di vergogna.

Non manca molto al salto della palla a due tra Trento e Tortona delle venti in punto (di sabato). Il Napoli del Conte Antonio ha appena segnato con Philip Billing, un bel fritto misto tra Nigeria e Danimarca, lo strameritato 1-1 con un’Inter che, come l’Armani domenica alla Segafredo Arena di Bologna, ha potuto avvalersi dei soliti aiuti non da poco, altro che aiutini, che le sono piovuti dall’alto dei cieli. Insomma sarei stato anche tentato di mettere qui un punto senza accapo e darvi appuntamento chissà a quando, ma non me la sono assolutamente sentita di lasciare sui carboni ardenti Walter De Raffaele sapendo che l’esito della trasferta in Trentino contro la capolista sarebbe potuta risultare decisiva per lui. Non era del resto un mistero almeno per me che Ray-ban era andato di traverso a Beniamino Gavio. Che gli rimproverava d’essere andato a Sanremo (vedi foto, ndr) il giorno dopo l’ennesima sconfitta, la sesta o la settima consecutiva, ho perso il conto, della Bertram con la Germani nei quarti di finale di Coppa Italia.

Ora non credo che il livornese d’Ovosodo, tosto com’è, abbia bisogno della mia difesa d’ufficio. Tanto più che mi vanto di non aver visto su Raiuno nemmeno un minuto del Festival della canzone italiana e d’aver appreso il nome del vincitore dell’edizione, che ha i miei stessi anni (75), soltanto perché lo sconosciuto (almeno a me) cantautore genovese, tale Olly, era testimone delle final eight di Torino e per questo è stato celebrato con i dovuti onori dallo speaker della manifestazione, il simpatico Mauro Dell’Olio, poco prima del fragoroso successo della Dolomiti Energia di Paolo Galbiati (allenatore dell’anno oggi come oggi al cento per cento) con ben sedici punti in più (79-63), non pochi, rifilati alle scarpette più rosa che rosse del Messi(n)a. E comunque non ci vedevo proprio niente di male che De Raffaele si fosse un cincinin svagato a Sanremo magari per dimenticare gli italiani da cui quest’anno si è sentito forse tradito. Parlo, tanto per non far nomi, soprattutto di Leonardo Candi e Paul Biligha o, se preferite, d’Andrea Zerini e Luca Severini.

Questo articolo che non finisce mai è stata una vera e propria odissea: l’avrà adesso capito anche il più distratto dei miei aficionados e quindi urge spiegare che l’ho iniziato a buttar giù sul Frecciarossa che mi riportava a casa dopo una settimana di tante belle cose (con)vissute a Torino, che per me è tornata ad essere la capitale indiscussa d’Italia, insieme ai gemelli dello sport, Giorgio e Paolo Viberti, a Riccio Ragazzi e i suoi magnifici ragazzi dInfront (la ripetizione è voluta) o al bel gruppo della Lega di Umberto Gandini. Da Maurizio Bezzecchi a Marco Aloi, da Francesco Riccò a Paola Vicinelli. Peccato o per fortuna, dipende dai punti di vista, che, mentre stavo scrivendo la più bella delle ultime perle della Gazzetta, mi sia ricordato che era lunedì 16+1 febbraio e abbia istintivamente spento subito il piccì. Appena un secondo prima di rovesciare tutto il tè col limone (nel fragile bicchiere di carta) sul tavolino inzuppando il quaderno degli appunti e i tasti del computer. Evviva!

Sabato sera ero poi lanciatissimo verso l’arrivo di uno dei pezzi più lunghi e sofferti della vita mia quando non ho saputo rinunciare a Mestre-Desio sugli spalti (vuoti) del Taliercio. Dove almeno la Gemini del buon Mattia Ferrari ha raccolto nell’ultimo quarto i due punti in classifica che la tengono ancora in corsa per i playoff di serie B grazie soprattutto ad un Luca Brambilla fantastico. Del resto se Cecilia Beccaro, l’effervescente moglie del compianto Massimo Mangano, si è sparata quasi novecento chilometri tra andata e ritorno da Fabriano per vedere Simone Aromando febbricitante (14 punti) e Nicola Giordano esagerato al tiro (7/19), come non avremmo potuto sua sorella Alberta ed io non farci solo un quarto d’ora in Jaguar per raggiungerla nel palasport di Cavergnago?

Così come adesso non posso fare a meno di spendere due parole su Virtus-Milano che con tutta la sacra famiglia ho seguito domenica alla Fiera di Bologna. Magari dando le pagelle ai protagonisti dell’86-80 come non fa più la Gazzetta quando perde Messina e che invece spiegano molto su come siano andate veramente  le cose nel duello. SEGAFREDO: Pajola 6.5, Belinelli 8, Cordinier 6.5, Akele 6, Diouf 6+, Hackett 6.5, Morgan 7.5, Holiday 4, Shengelia 7, Zizic 5+, Tucker 4. All.: Ivanovic 7. ARMANI: Mannion 5, Causeur 5-, Tonut 7-, LeDay 7, Mirotic 7.5, Ricci 5.5, Flaccadori 4.5, Bortolani 4, Brooks 6.5, Diop 5.5, Gillespie 4.5. All.: Messina 6. E gli arbitri? Male Sahin (5). Malissimo Borgioni e Bongiorni, quasi omonimi e purtroppo non anonimi: un bel 4 ad entrambi, ma non è tanto colpa loro, quanto di Citofonare LaMonica, pur bravissimo nelle scelte dei primi fischietti in Coppa Italia, che nell’occasione si è invece giocato male la carta di una terna che non può dirigere sfide del genere e che ha tenuto in piedi i campioni d’Italia soprattutto nel terzo periodo (14/14) a suon di tiri liberi (30) assegnati con assurda generosità.

Lunedì mi sono così potuto finalmente vedere in registrata Trento-Derthona 85-89 che secondo alcuni ben informati avrebbe salvato la panchina a De Raffaele. Io penso invece che semmai gliela ha salvata lo straordinario Justin Gorham con il suo record stagionale di punti (35, 9/10 da due). E comunque patron Gavio non poteva prendersela con l’allenatore dei due scudetti (più una Coppa Italia), che la Reyer non rivincerà più nel resto della sua esistenza, semplicemente perché la cosa non sta né in cielo né terra. Piuttosto s’arrabbi con la gente ingrata di Tortona che non riempirà mai il palazzetto e la cittadella dello sport che il magnate d’Alessandria le sta regalando e ascolti me: vada a Torino portandosi appresso sia il mio Ray-ban che il presidente Marco Picchi al quale devo un’intervista che mi aveva rilasciato sul quaderno degli appunti che chissà dove la mia Tigre ha buttato. E una squadra di stranieri parecchio ma parecchio più forte e meno italiana.

Ieri mi sono invece guardato la Juventus che ha fatto a polpette nientepopodimeno che il Verona nonostante avessi giurato, spergiuro che non sono altro, che di lei non mi sarei più occupato almeno sino a quando resterà al comando della baracca John Elkann insieme a Cristiano Giuntoli e Panna Montata Motta o Mottarello: chiamatelo pure come volete, tanto a me comunque non piace. Ma adesso devo proprio mettere un punto senza accapo se voglio finalmente porre fine a questo articolo che c’impiegherete come minimo due notti a leggere e che, se cominciassi a parlare anche di calcio, finirei forse dopodomani. Però non posso non spararvi la bomba di Luca Baraldi, l’ex braccio destro di Massimo Zanetti, che è stato contattato come direttore generale dalla società dei nove scudetti conquistati uno dopo l’altro da quell’incapace d’Andrea Agnelli. Magari. Lui stesso me l’ha confermato, ma non è detto che abbia accettato l’incarico dal momento che anche la Roma ha bussato alla sua porta. Mentre il re del Caffè pare sul serio deciso a sostenere da solo il nuovo aumento di capitale della Virtus d’oltre tre milioni per rimanere il numero uno indiscusso del club che vorrebbe (e potrebbe) rivincere il campionato a giugno e rigiocare l’EuroLega nella prossima stagione con un nuovo palasport in fieri alla Fiera. Vi è piaciuto pure questo gioco di parole? E intanto ricordate al quotidiano sportivo di Urbano Cairo, che detesta il basket e lo vorrebbe cancellare dalla faccia della terra se Giorgio Armani non lo sponsorizzasse sostanziosamente da qualche anno a questa parte, che la Reyer si gioca tra un’oretta (alle 21 su Sky Sport Max) la permanenza nell’EuroCup a Las Palmas con il Gran Canaria. La qual cosa forse sarebbe stato il caso di scrivere. In una riga o al massimo due.