Il basket che a me piace è quello di Sodini, Caja e Vitucci

sodini

Siamo fatti male. Molto male. E purtroppo non ce ne rendiamo conto. Con chi ce l’ho? Col mondo intero. E in particolare con me stesso. Perché ancora me la prendo se Mamma Rosa sbatte in prima pagina, come un mostro, il far west del piccolo Madison di Bologna, e anche ci sta, ma si è dimenticata la settimana scorsa di celebrare il titolo di campione d’inverno della Sidigas e allora vada pure a quel paese. E ci resti il più a lungo possibile. A pugni si può anche fare sotto canestro per una palla contesa che scotta. Ma se poi vedo che stanno tentando di bastonare mio fratello, magari anche intervengo. O devo far finta di nulla? Pago con la squalifica: due o tre giornate, non è questo il punto. Tre comunque mi sono sembrate esagerate. E pago pure una multa salatissima. Perché me la merito e così non ci si comporta. Giusto? Però adesso diamogli un taglio. O forse non sarà piuttosto che Alessandro Gentile vi è odioso e proprio non riuscite a digerirlo? Ecco, bastava dirlo. Mentre se Danilo Gallinari, il pupillo di Ciccioblack Tranquillo, molla un gancio al mento di un olandese che quasi nessuno conosce, lo si perdona ancor prima che chieda scusa e semmai ci si preoccupa se si è fratturato la mano e non potrà più giocare l’Europeo con la nazionale. Come è successo. O mi sbaglio? Perché il Gallo è un patrimonio della nostra pallacanestro e una stella (strapagata) della Nba. Dite? Anche se non ci ha mai fatto vincere niente. E in fondo è un bravo ragazzo di campagna. Ma non ditemi adesso che è generoso e pure simpatico perché non ci posso credere. E difatti non vi credo. Sono sicuro invece che Avellino sta sulle scatole al giornale sportivo di Milano e di Papà Urbano. Forse perché è una squadra del Sud? Non voglio neanche essere sfiorato da questo pensiero di bassa Lega salvinista. E allora? Proviamo almeno a riderci sopra. Altrimenti continueremo soltanto a farci del male. Che già ogni giorno ce ne facciamo abbastanza. E soprattutto non meravigliamoci poi se la nostra palla nel cestino va sempre più a rotoli. Di disfattisti e bacchettoni ad un tanto al chilo è piena la terra. E io ne ho piene le tasche. Come del ciclista che si dopa o del rugbista che s’incensa: ma quanto sono macho? O volevi dire macaco? E così adesso sostengo, e non accetto d’essere contraddetto, che anche noi siamo bravi e che il nostro basket nel suo piccolo è bellissimo quando magari non è quello della rissa di domenica tra il peso piuma Gutierrez e le vu nere. O nemmeno dell’ultimo periodo di ieri sera tra l’Armani e la Vanoli. Quando in due non sono state capaci di segnare più di una tripla in otto più otto tentativi a testa. Per la cronaca l’eroe da tre punti del Forum è stato un mulo di Trieste, Michele Ruzzier, ex Reyer. Ma il basket delle vittorie impossibili. Come di Varese a Venezia contro i campioni d’Italia e di Brindisi nella casa della signora Fiat. Oppure, meglio ancora, quello del sesto posto in classifica di Cantù alla pari con la Virtus e davanti a Sassari, Trento e Reggio Emilia. Che abbia un debole per Artiglio Caja e Frank Vitucci è risaputo. Non fosse altro perché il primo è cresciuto alla scuola di Paron Zorzi, come Ettore Messina, e il secondo è come me veneziano: lui di isola, io di terra. Però anche voi non potete non aver apprezzato le loro straordinarie performance suggellate dal record in carriera di Matteo Tambone, che viene dalla A2 (Ravenna) ed è nato a Graz (Stiria), e da uno dei tre Moore della nostra serie A: il Nicolas da Winona Lake che è più basso di me e schiaccia a due mani. Mentre Marco Sodini senza soldini non è un allenatore della mia scuderia. Né abbiamo mai bevuto un caffè insieme, tanto che non so se gli piaccia dolce o amaro: a me col Dietor (mezza bustina). Né ci siamo mai sentiti al telefono. Ma sarà il caso che domani o dopo lo chiami per fargli tutti i miei più sinceri complimenti. Perché avrà anche Culpepper, Smith, Chappel e il Tomas che gli ha regalato dieci giorni fa la vittoria a Brindisi con un canestro alla sirena da dieci metri, ma gestire una squadra prevalentemente d’americani che non si mettono in tuta se non li paghi al 28 di ogni mese, e guai se sgarri di ventiquattr’ore, è un’impresa nell’impresa. Cioè un’impresa davvero titanica. Soprattutto in una società che è sommersa da una montagna di debiti ed è un mistero come riesca ancora a stare in piedi. Chapeau. Sul serio.