Gli italiani di Reggio Emilia sono uno meglio dell’altro

menetti

Parlo piano perché non voglio che i sacerdoti del basket mi sentano e mi caccino dal tempio. E comunque sottovoce non penso di bestemmiare se sostengo che Reggio Emilia ci ha guadagnato, e non solo in euro, nel cambio di Andrea Cinciarini con Stefano Gentile. A dimostrazione che Alessandro dalla Salda tradizione contadina è molto più furbo di Bertoldo e Bertoldino messi insieme. Oltre ad essere il miglior general manager della pallacanestro italiana. Però questo non l’ho di certo scoperto io la primavera scorsa sulla strada che porta a Novellara in quel ristorantino di Pieve Rossa dal nome simpatico: il Gioco dell’Oca. Dove prima o poi devo tornare anche con il mio chef preferito per avere su qualche piatto anche la sua conferma. Ovviamente lo chef è Max Menetti. Col quale ogni tanto mi sento e al quale devo una lunga intervista che scriverò la settimana prossima per SuperBasket e per l’unico direttore, Dan Peterson, che ha ancora il coraggio d’accogliere nelle sue pagine i miei scarabocchi. Di questi tempi parlar bene della Grissin Bon e dei suoi artefici, compreso Alex Frosini, non è poi difficile: gioca che è un incanto e vince raccogliendo simpatie persino dai rivali e dagli sconfitti. Il che nel nostro Paese non è proprio altrettanto semplice. Però parliamone bene adesso. Anzi, subito. Senza vergognarci di farlo. Affinché non succeda quel che magari accadrà anche a me il giorno dopo che mi avranno finalmente messo a tacere per sempre. Come non credo che manchi molto. Anche se spero ovviamente di sbagliarmi. E di brutto. Di Reggio Emilia mi piace tutto. Tranne il formaggio e il palazzetto. Che è una vergogna dei suoi governanti e politici rossi. Mi piace perché è una squadra italiana senza americani con cinque italiani che giocano e non scaldano soltanto la panca sino a bruciarla. E questo, tra tutti, è il merito più grande di Max Chef Menetti. Poi c’è la semplicità della sua pallacanestro svelta e efficace. E ancora la serenità e l’allegria che trasmette la sua squadra a chi la guarda e ne resta innamorato. Lo sapete: ho un debole per Ricciolino Della Valle. Forse anche perché mi ricorda mio nipote Rocco che giusto oggi compie quattro anni ed è il più giovane giocatore della Reyer. Difatti guai a chi me li tocca. Così come vado matto per il Pietro Aradori che ho ammirato contro Torino e l’Achille Polonara, mvp degli ultimi playoff, coi quali per la verità in passato non ero stato spesso tenero, ma nel nostro basket solo i custodi del tempio non ammettono per nessuna ragione al mondo di poter anche sbagliare. Mentre di me potete dire tutto quel che volete, però non certamente che assomiglio a qualcuno di loro. Nel qual caso vi salterei al collo e vi strangolerei ad uno ad uno. Anche se siete in cento. Pure su Andrea Nicolao avevo qualche dubbio e invece anche lui sta facendo bene la sua parte. Senza esagerazioni. Quanto a Stefano Gentile ve l’ho già sussurrato ad un orecchio: è meglio anche del Cincia. E qui non temo d’essere smentito nemmeno da Riccardino Sbezzi non fosse altro perché è l’agente – guarda caso – di entrambi. Lo chiamano il più vecchio dei due Gentile anche se ha solo tre anni più del giovane Alessandro. E difatti, al posto del Gabibbo, per questo m’incazzerei con l’inviato principe della Confraternita dell’Osiris e non per i brutti o bassi voti in pagella. I gusti son gusti. C’è a chi per esempio piace il brodo di dado con la pastina glutinata Buitoni e a chi il pasticcio di finferli e porcini con la besciamella fatta dalla Tigre. Così come a me non è piaciuto Stefano tanto per i suoi prodigi nella finale di SuperCoppa quanto – cercate di capirmi – per la partita di lunedì sera. Nella quale ha giocato 22 minuti, uno più di Ricciolino, ma quasi non ci si è accorti che fosse sul parquet. Perché ha avuto l’intelligenza di non forzare nulla e di lasciare fare agli altri. Anche ad Aradori il playmaker. Ha sbagliato un tiro, ma non ne ha tentati altri. E ha cucito il gioco senza manco perdere una palla. Tanto più che nella Grissin Bon tutto stava funzionando a meraviglia e vincere di 24 punti, come è accaduto, o di 30 non avrebbe cambiato di una virgola il mio giudizio sul suo ottimo inizio di stagione. Andrea Cinciarini invece a Milano, come in nazionale, non è che mi abbia poi entusiasmato. Anzi, mi sembra che per lui il tempo delle nozze coi fichi secchi si sia fermato a quel tiro-scudetto sbagliato nella sesta finale dei playoff contro il Banco di Sardara. O magari ieri sera con i Boston Celtics mi ha già clamorosamente smentito. Come mi auguro. Ma mi spiace: non vado al circo da quand’ero piccolo e neanche ci porterò mai i miei nipotini. Il più vecchio dei quali, Edoardo di cinque anni, gioca nel Basket Mestre. Ed è già derby acceso in famiglia.