Mi piacerebbe un giorno raccontarvela come Ozpetek

teatro

Lo so molto bene che i più numerosi tra i miei aficionados sono appassionati di basket e quindi vorrebbero che di pallacanestro soprattutto riempissi il cestino di chiacchiere quotidiane più che dei fatti miei o di Gigi Candiani, il fornaio che dipingeva quadri, come ho fatto giovedì prima d’andare a teatro con mia figlia Giorgia a vedere Ferzaneide, di e con Ferzan Ozpetek (nella foto). E sia stato davvero un piacere ascoltare per un paio d’ore il grande regista d’origini turche che si è raccontato attraverso i suoi film più azzeccati. Da Il Bagno turco a Le fate ignoranti. Da Saturno Contro a La Dea Fortuna. “Ti leggo anche se per i miei gusti scrivi troppo di pallone e di Juventus, però è sempre meglio di niente” mi ha confessato giusto ieri sera una cara amica di Treviso, che ha il marito intertriste, gonfiando a dismisura il mio (già esagerato) ego. Mentre la gente sfollava dal Palaverde e si vedeva che era felice. Nonostante fuori piovesse a scrosci e non tutti avessero l’ombrello. E soffiasse un vento gelido che t’intirizziva come uno stoccafisso. Nonostante la squadra dei frullini che stanno spopolando nell’America di Joe Biden non aveva di certo incantato contro l’UnaHotels e, se aveva comunque vinto (86-76), è perché Reggio Emilia, tolto Mikael Levon Hopkins, centro di due metri e zero cinque cresciuto nella più antica università cattolica degli States, quella prestigiosa di Georgetown, è davvero poca roba. Forse addirittura la più debole della serie A assieme alla Fortitudo di Antimo Martino che non si pentirà, gli auguro, d’aver preso uno scarto dalla Reyer con un cognome di sedici lettere, Charalampopoulos, che in allenamento al Taliercio ho sempre visto far canestro dalla linea dei 6 metri e 75 e magari un giorno segnerà anche lui 24 punti in partita come è capitato sabato al mio redivivo Ricciolino, ormai senza più i riccioli che evidentemente Erode Messi(n)a gli aveva strappato ad uno ad uno. Quell’Amadeus Della Valle che quasi da solo ha messo in ginocchio la svogliata Venezia dell’imbarazzante Tarik Phillip. Che sarebbe tempo e ora che Napoleone Brugnaro prendesse per il bavero e, strattonandola, minacciasse di buttarla in canale. Con quel che gli costa: ottava in classifica a pari punti con la matricola Tortona del debuttante Marco Ramondino. Nonostante sia risaputo che di basket io ne capisca poco o niente avendo sempre snobbato i cenacoli della famosa Banda Osiris. Dove se il sommo Ciccioblack Tranquillo ti garantisce che Paul Biligha un giorno diventerà una superstar della Nba o che Gesù Cristo non è morto in croce ma di raffreddore, non c’è pericolo che uno dei suoi discepoli intervenga per dirgli: “Scusa, maestro, ma che cazzate stai sparando?” non volendo correre il rischio d’essere rinchiuso in una stanzetta di Sky e lì restarci sino al giorno della pensione. Come è già successo di recente, ma nessuno ovviamente ne ha mai parlato. Tornando al Palaverde, vi stavo raccontando della gente che sfollava contenta dal palasport dei Benetton, ai quali il club di Paolo Vazzoler deve ogni volta sempre pagare l’affitto, perché la Nutribullet bene o male è terza in classifica anche se in buona compagnia (Brindisi, Napoli, Trento e Trieste) senza però un euro di debiti, come del resto la Dolomiti del giornalista Luigi Longhi grazie ai sussidi della Regione, e con giocatori che la notte si sognano di guadagnare la metà di Andrea Cinciarini, ieri 2/8 da due e 0/5 da tre, cinque falli e meno 6 di valutazione. Michal Sokolowski con la mascella fratturata, Indiana Jones che chissà a quale mercatino dell’usato è stato trovato e Roccia Chillo che si è beccato il Covid in Ungheria andandoselo probabilmente a cercare. E qui mi fermo perché non voglio farmi altri nemici: ne ho già abbastanza, forse pure troppi, però la mia cara amica di Treviso avrà adesso capito perché preferisco scrivere d’altro piuttosto che farmi il sangue amaro con la nostra amatissima pallacanestro e le sue evidenti distorsioni congenite. Che così mi va di chiamare per voler essere carino. Parlo in primis di una nazionale che ha rischiato di perdere in casa coi Paesi Bassi e di compromettere la sua qualificazione ai Mondiali perché Giannino Petrucci non ha nemmeno osato chiedere al Messi(n)a se per un paio d’ore magari poteva prestare Nic Melli, Gigione Datome e Pippo Ricci, presenti in tribuna, al povero MaraMeo Sacchetti. O vogliamo discutere della Lega del basket che non ha occhi per piangere ma sovvenziona i misteriosi progetti della Banda Osiris per tenerla ancora in vita? Ecco perché l’altra sera ho invidiato Ferzan Opzetek che ha avuto la geniale idea di raccontare il suo vissuto non in un libro come la Mussolini o Zaia o Ibrahimovic ma in uno spettacolo. Sul palcoscenico di un teatro. A ruota libera o, come si dice in gergo, a braccio. Come piacerebbe fare anche a me, se fosse un giorno mai possibile, ripercorrendo le tappe della mia pirotecnica avventura sportiva attraverso 7 Olimpiadi e 35 campionati del mondo. Dal calcio-manette degli anni 80 a Tiger Woods con la maschera da Zorro sul traguardo di Cortina. Attraverso le interviste in esclusiva a Maradona, Boniperti, Michael Jordan, Carmelo Bene o Cesare Rubini in villa Missoni. Una a caso. Mentre anche mio padre, come quello di Ferzan, avrebbe voluto invece un altro figlio laureato. Magari in farmacia. Per fare i tamponi ai no vax che pure nel basket sono assai più numerosi di quanti possiate immaginare? Anche no, grazie. A domani. Dopo che stasera in radio ho avuto il piacere di fare ancora quattro chiacchiere con Dino Zoff e scambiarci i più sinceri auguri di Natale. Ed è stato anche questo un bellissimo momento. Unico.