Domani è la festa del lavoratori. Proprio adesso che nessuno lavora? La domanda impertinente mi ha restituito il buonumore. Anche se il primo maggio in Italia per la verità non hanno mai lavorato nemmeno i giornalisti. Come quel primo maggio del 1994. Ero a pranzo sui Navigli. Al Torchietto del caro Sergino. Con Franco Grigoletti e la Franca, sua moglie. La tivù spenta. Nonostante si corresse il Gran Premio di San Marino. Ma la festa era di quelle dove mi sembrava di stare in famiglia e tutto il resto veniva molto dopo. Forse c’erano anche Oscar Eleni con la Luisa: questo non lo ricordo. Ricordo benissimo invece che eravamo al dessert, per non dire alla frutta, quando piombò sull’allegra tavolata l’agghiacciante notizia: Ayrton Senna s’è schiantato contro un muretto. Durante il settimo giro. Alla curva del Tamburello. Un impatto tremendo. “E’ gravissimo, non so se ce la farà”, confessò al telefono il giovane Daniele Dallera che aveva subito chiamato il Grigo da Imola. “Lo stanno trasportando in elicottero all’ospedale Maggiore di Bologna”. Non ce la fece e Ayrton morì al calar del sole di una splendida giornata davvero crudele. Adoravo Senna, soprattutto i suoi occhi buoni: era l’altra faccia del Brasile dei miei sogni da ragazzo, il Pelè della Formula 1, il campione che credevo immortale come Garrincha e Scirea. Con quegl’occhi che oggi invece vedo velati di tristezza. Come forse sono sempre stati i suoi. Avrei avuto tante cose da raccontarvi. Di me. Ovviamente. Perché non conosco meglio di me nessun altro. E di voi che avete riempito, bene o male, la mia vita di zingaro. Che catene non ha. Come faceva più o meno quel vecchio motivetto cantato con tanta passione, se non sbaglio, da Nicola di Bari. Ultimamente dormo poco la notte e quindi penso molto. Accendo la luce e leggo il libro che avevo abbandonato sul comodino. Che m’incuriosiva anche parecchio, ma mi ha poi deluso e dunque mi sa che lo lascerò perdere. Oppure mi alzo e scrivo per schiacciare tutti i pensieri nel mio Scacciapensieri. Come del resto ho fatto anche questa notte. Capita invece che al pomeriggio caschi dal sonno e allora mi butto sul letto un paio d’ore. Insomma sto scambiando il giorno per la notte. Che di questi tempi di prigionia da carogna-virus non è però in fondo neanche un dramma. Anzi. Ero anche partito in quarta e avrei per esempio voluto raccontarvi di quella volta alla Trattoria delle Mura, a San Lazzaro, nelle campagne di Bologna. Quando entrò nella saletta Andrea Riffeser Monti insieme a una bella amazzone molto più giovane di lui con la quale non escludo che fosse andato a cavallo nel vicino circolo ippico. Stavo pranzando con Lorenzo Sani e loro si sedettero al tavolo di fronte al nostro. Riffeser mi girava le spalle e mi mostrava la coppa lucida e troppo invitante. Per far cosa? Ve lo racconto la prossima volta. Lo prometto. Il ricordo di Ayrton Senna mi ha raffreddato di colpo i bollenti spiriti. Non vi svelerò invece né il titolo, né il nome dell’autore del romanzo su Venezia, che non finirò probabilmente mai di leggere, perché si fa comunque troppa fatica a scrivere un libro e sarebbe oltremodo scorretto mortificarne il lavoro. Mentre al commenda milanese, nonché cavaliere della Repubblica, mi sarebbe veramente piaciuto di rovesciargli in testa il piatto di gramigna con salsiccia che stavo gustando. Ma Lorenzaccio, che mi conosce molto bene, aveva capito quello che avevo in mente di fare e mi pregò al volo: “Mi mancano ancora pochi mesi d’inviato al Carlino e poi vado in pensione”. Ero già in piedi con il piatto fumante in mano. Mi tornai a sedere, ma un’occasione più ghiotta non mi capiterà mai più nella vita e la rimpiangerò per il resto dei miei giorni. Però una vera amicizia vale molto più di una simpatica vendetta: su questo non ci piove. Anche se non nascondo che non mi sarebbe dispiaciuto vedere la faccia del presidente della Federazione italiana editori giornali (Fieg), che nel 1997 comprò il mio Giorno dall’Eni solo per il gusto di massacrarlo e ridurlo in cenere, con la pasta che gli scivolava sulla camicia e le orecchie a sventola ripiene di salsiccia. Se la gente analizzasse meglio chi sono gli editori dei grandi quotidiani in Italia magari la smetterebbe di mettere in croce sempre e solo i giornalisti che hanno i Riffeser (Carlino, Nazione, Giorno) come padroni del vapore, ma c’è anche e ancora molto di peggio: per esempio gli Elkann, non Lapo ma John, dove sta l’errore? (Repubblica, La Stampa, Secolo XIX) o Papà Urbano Cairo (Corriere della Sera) sposato a Mamma Rosa o i Caltagirone (Mattino, Messaggero, Gazzettino) per non parlare del fratello di Berlusconi, il buon Paolo, che controlla il barcollante Giornale dal 1990 e gli Amodei che tiene in piedi gli altri due quotidiani sportivi nazionali. Non so se mi spiego. E comunque ero partito con l’intenzione d’anticiparvi che all’edicolante, che m’infila ogni mattina i giornali sotto la porta, chiederò di sfilare domenica dalla mazzetta la Repubblica che molti compagni mi hanno già confidato che non compreranno mai più. Dopo che è stata agnelizzata da Maurizio Molinari, il direttore che ha fatto le scarpe a Carlo Verdelli, e non è più il loro giornale di sinistra nato con Eugenio Scalfari nel 1976 e morto il 23 aprile con lo sciopero proclamato da una larghissima maggioranza dei redattori. Ma forse cambierò idea. Anche perché in fondo cinquanta euro in più o in meno al mese non mi cambiano di certo la vita. Anche perché solo Marco Travaglio e io ce la siamo tanto presa a cuore, ma poi abbiamo visto che lo stesso Scalfari non ha rinunciato domenica al suo editoriale dal titolo “Il giornale che ho fondato è un fiore che non appassisce”, sperando che non sia un crisantemo, e Concita De Gregorio, direttrice dell’Unità dal 2008 al 2011, ha ieri svoltato velocemente a destra correndo dietro al Folli Stefano, simpatizzante del Lombardo-veneto leghista, per passar sopra con le quattro ruote al Conte Giuseppe e al suo governo. Anche perché la Tigre non rinuncerebbe volentieri al terribile cruciverba di Stefano Bartezzaghi e io alla penultima pagina satirica di Repubblica. Dalla quale ho ritagliato anche oggi il #bravimabasta di Luca Bottura (“Taranto per noi”) e il Cucù di Sebastiano Messina di cui faccio tesoro. “Possiamo considerare “congiunto” visitabile anche un amico, dice il sottosegretario Sileri. Però “solo se è un amico vero”. E’ una certezza che anche noi, a volte, vorremmo avere. Ma come si fa a saperlo? Esiste il tampone dell’amicizia vera o almeno un test rapido?”. Anche se a me per Gigi, Lorenzaccio e Nino non serve più nessun tipo di verifica. E comunque c’è poco da fare: ormai leggo volentieri solo il Fatto Quotidiano che è un giornale vivace e intelligente, polemista e cucinato bene. Senza un editore potente e di cartello alle spalle. Fondato poco più di dieci anni fa da Antonio Padellaro con Peter Gomez e Marco Travaglio che a entrambi è succeduto come direttore nel 2015. Tutti e tre azionisti, assieme all’attuale presidente e a.d. Cinzia Monteverdi, di una società priva di un azionista di controllo. E questa è probabilmente anche la forza e il segreto del successo del Fatto. Poi c’è ovviamente il Curierun che, come mi ripeteva sempre Guglielmo Zucconi, è uno schiacciasassi che magari ci mette un po’ per mettersi in moto, ma poi, quando arriva, è devastante e non ti lascia sulla strada nemmeno le briciole. Senza trascurare le ottime pagine sportive curate da Daniele Dallera, che è cresciuto alla scuola del Giorno di Sardone-Grigoletti, le quali staccano di un paio di giri di pista quelle litigiose della redazione dei galletti di Repubblica che si è sfasciata con la grave perdita di Gianni Mura che almeno li teneva uniti anche se tra loro non si potevano sopportare e adesso infatti sembrano smarriti. E si sono appiattiti quasi più dei colleghi della Gazzetta con i quali sono pure quest’anno in competizione, gomito a gomito, per aggiudicarsi il titolo Fuga dalla notizia 2020 che assegna la maglia nera. Non è l’alba, ma non ci manca poco e non vi ho ancora detto che sono stufo di vedere quei due e di sentire le cazzate che sparano ogni secondo in televisione il Cazzaro Verde e la Facciona Nera. Alias Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Tanto che assieme agli amici lagunari siamo arrivati al punto d’essere disposti a comprare la pagina di un giornale per urlarlo ad alta voce e farlo capire a tutti che siamo stremati e sull’orlo di una grave crisi di nervi. Ma quale editore potrà ospitarci a pagamento? Forse e magari solo la Società editoriale il Fatto (Seif). E difatti domani do un colpo di telefono a Andrea Scanzi chiedendogli un’innocente spintarella con la Capoverdi. Pardon, Monteverdi. Buonanotte.