Mi piange il cuore ma il primo da vendere è subito Dybala

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E’ stato un weekend tutto da dimenticare. Almeno per i miei gusti. A parte il trionfo nel superG di Sankt Moritz della Bisbetica domata, Federica Brignone. Che le gazzette sportive possono raccontarvela come vogliono: felice e sorridente, e persino generosa di buone parole nei confronti delle altre azzurre ieri battute, ma con la quale non berrei un Vov caldo insieme, e men che meno con la madre, Ninna Quario, più invidiosa della figlia per i passati successi di Sofia Goggia e di Marta Bassino, nemmeno al Polo Nord con quaranta gradi e oltre sotto lo zero. Federica era domenica raggiante sul podio engadino, tra la brava Elena Curtoni e Mikael Shiffrin, che non è più la mia Shirley Temple, bambina prodigio coi riccioli biondi, ora che si è fidanzata con Aleksander Aamodt Kilde, un tosto norvegese che si è già aggiudicato nell’inverno scorso la Coppa del Mondo assoluta e che, dopo essersi rotto i crociati del ginocchio, ha ricominciato la stagione dominando entrambi i superG di Beaver Creek in Colorado. Non riesco infatti a dimenticare la Brignone scorbutica, scocciata e scontrosa degli ultimi Mondiali di Cortina d’Ampezzo, dove il suo fiasco è stato completo e ha scaricato tutte le colpe nei tecnici azzurri dai quali ha preso sdegnosamente le distanze per andarsi ad allenare col fratellino Davide, minacciando capricciosa persino il ritiro dalle gare nell’anno dei Giochi di Pechino e girandosi dall’altra parte ogni qual volta per caso incrociava in corso Italia la Goggia e la Bassino. In verità la Bisbetica (forse) domata è stata ieri brava quanto fortunata perché la partenza è stata di molto abbassata per il forte vento trasformando il superG in un manche di gigante nemmeno troppo lunga, sotto il minuto, e quindi molto più conforme alle qualità tecniche di una Brignone che a quelle della Goggia. Inoltre la favoritissima Lara Gut Behrami è volata a metà gara fuori pista oltre le reti e comunque Federica sarà anche l’italiana che ha vinto più gare di Coppa del mondo (17 di cui 5 nell’insulsa combinata), ma non sarà mai più grande di Deborah Compagnoni che d’ori olimpici ne ha conquistati tre in altrettante Olimpiadi. E nemmeno di Sofia Goggia se la bergamasca replicherà – come credo – a Beijng il trionfo in discesa di Pyeongchang del 2018. Vi dicevo di un fine settimana che è andato storto alla Juventus di Max Allegri con l’inutile e blasfemo pareggio di Sant’Elena e un secondo tempo da cinema dell’orrore. O a Lewis Hamilton che all’ultimo giro ha immeritamente perso un Mondiale che i giornali inglesi hanno giudicato “una rapina a mano armata”. Per la gioia di Marc Gené che lavora per la Ferrari come brand ambassador e pure commenta con Carlo Vanzini i Gran Premi su Sky scambiando il verbo essere con l’avere come nemmeno Luca Zaia nelle sue quotidiane conferenze-stampa nella sede della protezione civile di Marghera. Ora cosa faccia un brand ambassador a Maranello non mi è dato sapere e neanche me ne importa scoprirlo. Penso piuttosto che di giovani opinionisti assai più bravi e più modesti dello spagnolo del Cavallino arrapato, più che rampante, ne esistano nel Bel Paese a decine di migliaia. Mentre Gené è faziosamente di parte: stravede per Charles Leclerc, quasi doppiato anche ad Abu Dhabi e settimo nella classifica finale piloti dove corrono in sei, e fa un tifo sfegatato per Max Verstappen come nemmeno la fidanzata Kelly Piquet che vorrebbe portare lo scorretto olandese sull’altare ancor prima di Natale. All’ultimissima porta dello slalom di Val d’Isere ha inforcato pure Alex Vinatzer per il quale invece non mi vergogno a confessare che ho un debole. Come per Jannik Sinner e per tutti i veri campioni che quella splendida terra, che è l’Alto Adige, ha regalato a piene mani all’Italia spesso senza essere ricambiata. Devo essere sincero: il giovane gardenese non avrebbe comunque vinto perché il francese Clement Noel era stato molto più in gamba in entrambe le manche tra le porte strette, ma sarebbe comunque arrivato secondo anche su uno sci solo conquistando così di nuovo il primo gruppo di merito. Non so come ho fatto, ma sabato lo strazio bianconero del Penzo mi ha stremato sin pochi minuti prima delle venti, ma alle ventuno ero già bello e pimpante sugli spalti del Palaverde. Dove la Treviso di un pessimo Russell (0 su 10 al tiro) era sotto di 15 punti con Pesaro senza Delfino e ha finito per perdere di 10 anche se si è avvicinata a 2 dopo una tripla di Davide Casarin, il figlio diciottenne del presidente della Reyer. La quale, al contrario, ha chiuso il terzo periodo in vantaggio di 9 (59-50) sul Banco di Sardara e nel quarto è andata a picco (70-76) con un quintetto (Phillip, Sanders, Vitali, Stone e Echodas), che un giorno Walter De Raffaele mi dovrà magari spiegare, facendo finta di difendere sul buon Robinson Crusoe (20) e sul solito giustiziere della notte, David Logan, ma soprattutto segnando un solo canestro con un gancetto di Mitchell Watt e nove centri dalla lunetta. Chapeau, per carità di dio, a Luca Banchi e Pierino Bucchi che hanno resuscitato due cadaveri, però francamente una serie A di così basso livello con una decina di squadre sullo stesso piano, cioè una peggio dell’altra, francamente non me la ricordo in vita. Con Napoli e Trento terze in classifica, dai: non scherziamo. Pur volendo un sacco di bene a Sacripantibus e a Lele il compaesano Molin. Sci, motori, canestri e per chiudere il pallone con la Juve che dal vivo è anche peggio che in televisione. Perché la vedi che è alla fine di un ciclo. Senza più voglia di lottare e di correre. Lenta, prevedibile, lessa, macchinosa, scolastica. Con un solo aggettivo: orribile. Nel complesso e più  ancora nei singoli. Vecchi e giovani. Perché da Kajo Jorge ti aspetti almeno un guizzo in oltre un’ora e invece niente di niente. Perché Morata non può quasi sempre ricevere la palla a centrocampo spalle alla porta e prenderle di santa ragione. Perché Bernardeschi e Rabiot cercano la profondità e non la trovano mai. Perché Locatelli avrebbe anche qualche buona idea ma confusa. Perché non si sa bene dove sia finito Ramsey che costa 15 milioni lordi all’anno. Perché Dybala (nella foto) non può farsi male al coscia una volta al mese, giocare la metà delle partite in un anno, segnare col contagocce e pretendere poi 10 milioni puliti d’ingaggio a stagione. E’ la mia Joya ma, se la Juve deve essere ricostruita dalle fondamenta, si volti subito pagina e si ricominci dalla sua cessione. Non per soldi, che tanto agli Agnelli non mancano e non è questo il problema, ma per rifare ex novo una squadra che non deve rivincere nove scudetti di fila e men che meno la Champions, ma che almeno abbia quella dignità e quella identità che adesso ha smarrito con due punti meno della Fiorentina e solo un paio più dell’Empoli. Sperando che chiuda almeno questo campionato all’ottavo posto. Così risparmia ai suoi sostenitori lo strazio di vederla giocare nell’Europa League o, ancora peggio, in Conference League. E a me consenta durante la settimana d’andare al teatro o al cinema dopo cena. Beato e contento.