E’ Zach Johnson l’ultimo cavaliere di St. Andrews

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Mi posso sempre anche sbagliare, ma non ho trovato ieri un solo rigo dell’Open Championship di St. Andrews né su Repubblica, né sulla Stampa, che dovrebbero essere – lo dicono loro – i quotidiani alternativi allo sport che sforna maldestramente ogni giorno la mielosa Gazzetta dei lumaconi. L’Old Course di St. Andrews, in Scozia, dove ho avuto l’onore di giocare una volta, e per l’emozione non ho neanche sfiorato la pallina con il driver al tee della uno, è il campo di golf più famoso della terra. Questo per la verità non avrei neanche dovuto ricordarvelo. E allora andate tutte e due di corsa dietro alla lavagna con le orecchie d’asino e restateci almeno sino alla fine dei playoff e dopo l’ultimo putt di Louis Oosthuizen purtroppo sbagliato di un pelo. Il sudamericano, che qui aveva già vinto nel 2010, è partito nel primo pomeriggio di ieri con il favore del (mio) pronostico assieme a Paul Dunne, il ventiduenne sorprendente irlandese di Dublino con quale divideva la leadership al termine delle prime 54 buche. La sorpresa stava nel fatto che il ragazzo è ancora un dilettante e quindi non avrebbe comunque intascato una sterlina neanche se avesse vinto l’unico dei quattro Majors che si gioca ogni estate in Gran Bretagna e in Europa. Probabilmente Paul Dunne, pensando e ripensando al golf che aveva giocato nei quattro giorni precedenti, non deve aver mai chiuso occhio per tutta la notte e difatti è sembrato ancora assonnato nelle prime due buche delle ultime diciotto di St. Andrews. Che ha chiuso entrambe con il bogey escludendosi così subito dalla corsa al successo nell’Open più prestigioso che c’è al mondo. A quel punto, aut l’amateur, anche se la leaderbord proponeva ancora tra i top ten nomi molto illustri come quelli di Jason Day, Padraig Harrington, Zach Johnson, Adam Scott, Sergio Garcia e Justin Rose, tutti raccolti in un fazzoletto d’appena tre colpi (dal -12 dell’australiano-filippino al -9 dell’inglese allampanato), avrei giurato che il titolo di St. Andrews se lo sarebbero giocato in un duello all’ultimo putter Louis Oosthuizen e Jordan Spieth, il predestinato di Dallas o, meglio, l’erede annunciato di Tiger Woods. Apro parentesi: dal giorno in cui Tiger è stato piantato in asso dalla Sharon Stone dello sci, Lindsey Vonn, tradita e sconsolata, e Matteo Manassero ha mollato la dolce Annetta di Villa Condulmer, sarà un caso, però l’interesse per il golf nel Belpaese sui giornali politici è andato via via scemando sino a scomparire dalla Stampa e dalla Repubblica. E subito la richiudo dicendo che, al di là dell’ignoranza straripante degli italiani per tutto ciò che non è calcio, non si può neanche pretendere che Francesco Molinari, studente modello e giovanotto d’oro, possa catturare la simpatia della stupida gente che calpesta i nostri fairways. Chicco, l’unico azzurro ad aver passato sabato il taglio, di nuovo ieri è stato stupendo completando – non so se mi spiego – l’ultimo giro con un fantastico 67, cinque colpi sotto il par dell’Old Course di St. Andrews, che gli è valso il 40esimo posto fnale. Però c’è poco da illudersi: il timido torinese, che tranquillamente vive a Londra con la moglie e il figlio Tommaso, è senz’altro un primo della classe, ma difficilmente diventerà mai un fuoriclasse. Come è invece Jordan Spieth. Che sembrava aver compromesso tutto con un maldestro doppio bogey alla 11, ma poi con tre birdie e un chilometrico put alla 16, aveva ugualmente raggiunto in testa un altro australiano, Marc Leichman, che alla stessa buca s’era invece perso in un profondissimo bunker. Al tee della 17, quella che col driver sorvoli le case del borgo universitario, avrei così scommesso in un playoff a tre tra il texano, il canguro di Waarnambool e Zach Johnson, il 39enne cavaliere dell’Iowa capace sul green della mitica 18 d’infilare in buca un putt dal giardino di casa sua. Ma mi sarei ancora sbagliato. Perché proprio alla 17 Spieth buttava via con un dispettoso bogey il sogno di vincere il terzo Major di fila, dopo il Masters di Augusta e l’Us Open, e di scalzare dal trono di numero 1 al mondo Rory McIlroy, che si è storto una caviglia giocando da stupidello a football e per questo starà fermo ancora per un bel pezzo. Però sarà comunque playoff a tre su quattro buche (la 1-2-17-18) con Luis Oosthuizen, magico birdie pure lui alla diciotto, al posto di Jordan Spieth. Insomma al calar della sera nessun europeo, ma Leichman, Johnson e Oosthuinzen e i loro caddie hanno attraversato per altre due volte il ruscello Swilcan Burn sul ponticello di pietra e sassi che divide i fairways della una e della diciotto. Sul green della quale l’americano a stelle strisce, con i gli occhiali da sole anche quando come ieri piove, ha avuto ragione dell’ostinato sudafricano e ha rivinto un Major otto anni dopo quello d’Augusta. L’orologio della piazza di St. Andrews segnava le venti meno tre minuti. Ora di Greenwich. Logicamente. E Zach Johnson ha singhiozzato sulla spalla della moglie. Come un micione. Miagolando: “Non avrei mai potuto giocar meglio”.