Sempre meglio fare il giornalista che lavorare

giannibrera

Il primo maggio è uno dei sei giorni dell’anno in cui i giornalisti dei quotidiani non lavorano. Gli altri sono Natale, e la sua vigilia, il 31 dicembre, Pasqua e Ferragosto. Lo so benissimo: in molti pensano che quello dei giornalisti, soprattutto sportivi, non sia neanche un mestiere, ma una lunga vacanza nemmeno mal retribuita saltando da uno stadio a un palasport. E per rafforzare e avvallare la loro (stupida) idea si stringono intorno ad una celebre affermazione di Luigi Bazzini jr. che è diventato un luogo comune: è sempre meglio fare il giornalista che lavorare. In verità magari è anche vero: per esempio il vostro vecchio scriba, come direbbe il sommo Gianni Clerici, non avendo più voglia di studiare e non vedendosi dietro il bancone di una farmacia a vendere sciroppi e preservativi per tutta la vita, abbandonò gli studi universitari con grande cruccio di suo padre e si buttò a capo fitto nell’avventura di una radio privata che si chiamava Nova Radio, prima d’essere assunto in un piccolo giornale di provincia che non tirava neanche cinquemila copie e che era il Diario di Venezia, Padova e Treviso. Però è pure vero che l’aforisma del famoso inviato milanese del Corriere della sera è stato estrapolato da una frase un po’ più articolata del Bazzini jr. (1908-1984) che così recitava per intero: “Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare”. Me lo disse anche Gianni Brera sorseggiando un buon bicchier di vino delle sue colline pavesi “che gli sorrideva”. Prima di un derby della Lanterna dell’82. Finito, se non ricordo male, in parità. Forse 1-1. Lui era per il Genoa. E mi chiamava “giovane collega” del Giorno, senz’altro il giornale che l’ha più amato. Mentre Luca Goldoni ne ha fatto nell’89 persino il titolo di un suo piacevole libro: “Sempre meglio che lavorare”. Così ieri, primo maggio, me la sono presa molto ma molto comoda. Neanche non fossi già in pensione. Quasi volessi onorare con l’ozio quel giorno che, tra i sei canonici di riposo dei giornalisti della carta stampata, mi è sempre stato il più caro. Saltando dal letto al divano. Dalla mattina alla sera. E alzandomi solo per gustare gli asparagi di Badoere con le uova sode. Rivedendo le partite che mi ero registrato e godendo del 4-2 dell’Empoli sul Napoli. E rileggendo proprio “Il principe della zolla” e alcune delle cento storie più belle di Gianni Brera scelte col cuore da Gianni Mura. Il quale detesta il punto esclamativo. Che una volta chiamavano ammirativo. Per il quale nemmeno io vado pazzo, ma non al punto da dare a prescindere tre in pagella a chiunque lo usi in un articolo. C’è anche molto di peggio. Come l’“a me mi piace” di De Laurentiis ripetuto e mai corretto nelle sue pavoneggianti interviste. Difatti Zio Aurelio non si merita più di due in italiano. Con o senza punto esclamativo!