E poi ciameo mona. Si dice dalle mie parti. Tra ponti, calli e campielli. Ovvero: e poi chiamalo stupido. Sdoganando la parola o, meglio, l’aggettivo mona come una volgarità di cattivo gusto. Ancor più rivalutata in laguna adesso che Monna, con due enne, di nome Paolo, ha conquistato prima del tg2 meloniano di mezzogiorno, a 270 chilometri da Parigi, in quel di Chateauroux, la medaglia di bronzo olimpica nella pistola ad aria compressa. Cinque minuti prima che il suo compagno di squadra, Federico Nilo Maldini, neanche lontano parente del mitico Ceccecesare, cittì degli sciagurati azzurri del pallone a Los Angeles 1984 e però meraviglioso vice di Enzo Bearzot ai Mondiali di due anni prima, quelli dell’ochenta y dos di Paolo Rossi, perdesse per un’inezia, neanche un punto, mi sembra nove decimi, ma non ci potrei giurare, il testa a testa nella gara di tiro al bersaglio dai dieci metri che valeva l’oro con il cinese Yu Xie, finalmente nome e cognome quasi di routine. Vincendo comunque l’argento, dici niente, e la quinta medaglia dell’Italia in questi Giochi. Rispettando così la media record di podi olimpici (40, uno in più che a Tokyo 2021) auspicati e quasi promessi dal presidente del Coni, l’entusiasta Giovanni Malagò che nessuno si sogna di chiamare Gianni o Giannino come l’amico Petrucci. L’amico tra virgolette. Le virgolette che detesto. Ma che qui ci vogliono.
Il carabiniere Paolo Monna viene da una famiglia d’incalliti cacciatori di Carovigno, nel Brindisino, che gli hanno insegnato a sparare sin da piccinin come Dio comanda. Mentre il carabiniere Federico Nilo Maldini, perché Nilo?, non lo scoprirò mai, viene da Bologna e ovviamente avrebbe voluto diventare un buon giocatore di basket come Marco Belinelli. E ci ha pure provato, ma non l’hanno preso. Né alla Virtus, né nella Fortitudo. E allora a sedici anni è entrato in un poligono e da lì nessuno l’ha più schiodato. Scandaloso è invece che le comunità internazionali tollerino che si continui a combattere e a produrre armi. Ha tuonato Bergoglio durante l’Angelus. Grande Papa Francesco. L’ultimo grande comunista della Terra. Come lo definisce da tempo Boscia Tanjevic. Ed io sono pienamente d’accordo con lui. Come sempre. In tutto. Ovviamente evitando qualsiasi accostamento all’attuale Pd dei miei stivali.
Saltando da un canale all’altro per non perdermi nulla dei Giochi ho finito per fare un casino tremendo e per non capirci sul serio più un accidente. Difatti ho deciso che da domani seguirò tutti gli sport e gli avvenimenti in diretta sintonizzato su Rai2 o njeRaisport. O al massimo buttando eccezionalmente l’occhio su Eurosport. E non mi registrerò quasi più nulla come invece faccio d’abitudine con i campionati di pallacanestro e sino all’anno scorso di calcio. Dal 17 agosto invece andrò in vacanza dove Dazn e Sky non prendono. Anche al Polo Sud se non facesse un freddo bestiale e la carne della foca leopardo non mi fosse indigesta come quando mi capitava di leggere Luigi Garlando e Massimo Nerozzi, i calunniatori seriali di Max Allegri per far contento il padrone, Urbano Cairo. Che poi non è in fondo così tanto male. Dicevano di lui. Peggiorando ancor più le cose.
Guardando però le cose da un altro punto di vista, la mia sete olimpica nei primi due giorni parigini mi ha fatto conoscere il rugby a sette e diventar matto per una palla ovale che a quindici non mi ha invece mai tolto il sonno. Impazzendo per la Francia come per Michel Platini e Zinedine Zidane un tempo e adesso per Antoine Dupont, il mediano di mischia del Tolosa che ha trascinato i transalpini alla conquista dell’insperata medaglia d’oro nella finale dell’amatissima bislunga con le Fiji che a sette parevano ed erano imbattibili. Offrendo a Grandidier l’assist del 7 pari. E poi firmando nella ripresa il 28-7 finale con due mete una più geniale e travolgente dell’altra.
Non ci è voluto invece molto per entusiasmarmi per la pallanuoto di cui ho sempre scritto in verità molto poco. Troppo poco. Ma di cui conservo un ricordo bellissimo: l’oro di Barcellona 1992 della nazionale di Ratko Rudic, il Maestro, e di Alessandro Campagna, attuale cittì degli azzurri. Fu un’interminabile sfida di finale con la Spagna di quel formidabile giocatore che era Manuel Estiarte. Un duello che durò dopo il 7-7 (e ridagliela) dei quattro tempi regolamentari ben altri sei supplementari. Con il re di Spagna, Juan Carlos, e la sua cara moglie, seduti proprio davanti a me, che saltavano in piedi scomponendosi ad ogni rete iberica facendomi venire di quei nervi che non vi dico e che forse però vi ho già raccontato. Non importa. Finché a poco più di mezzo minuto dal termine di quella fantastica maratona Nando Gandolfi non sparigliò una volta per tutte il match. E al re e alla regina feci lo stesso gesto della traversa che si piegò in due per respingere l’ultimo tiro degli spagnoli: quello dell’ombrello…
Non potevo non ricordarlo: è più forte di me. Così come adesso non ce la faccio a non sbilanciarmi nell’affermare che Campagna ha davvero messo insieme un Settebello che mi stupirei se non arrivasse in semifinale. E poi ce la giochiamo. Mi sbaglierò anche, perchè non sono un intenditore come l’amico di Fb al quale avevo promesso che avrei visto oggi pomeriggio l’esordio dell’Italia contro gli Stati Uniti d’America, e sono stato di parola, però la netta vittoria per 12-8 su quegli ossi duri mi ha reso ottimista per il futuro degli azzurri a segno con Lorenzo Bruni (1-1), Andrea Fondelli (2-1), Tommaso Gianazza (3-1), Alessandro Velotto (4-1) e Edoardo Di Somma (5-3) nel primo tempo. Poi Matteo Iocchi Gratta (una doppietta come Giannazza e Francesco Di Fulvio), Nicholas Presciutti, Francesco Di Fulvio e Gonzalo Echenique (12-6) hanno completato l’opera nella ripresa. Per Matteo Iocchi Gratta (nella mia foto in diretta tivù) ho preso una cotta. Ventidue anni il primo settembre, grande grosso robusto e grintoso, attaccante della Pro Recco, una Champions e due argenti mondiali a Budapest e Doha, montenegrino come la madre che non penso di sbagliarmi se penso che non sia male se è stata Miss Roma prima di sposare un italiano fortunato.