L’abbiamo amato a Venezia e a Mestre come nessun altro

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Ieri non ce l’ho fatta. Oggi ci provo. Per noi era il Coach. “Il mio unico Coach”, come lo chiamava l’amico Gian Paolo Nicolin. Noi del Basket Mestre 1958 che tra i fondatori aveva avuto anche mio padre. E noi di NovaRadio Mestre-Venezia. Più Mestre che Venezia. Di cui sono stato il direttore. La prima che in Italia trasmetteva le dirette di pallacanestro. Ciao Roberto. Non so ancora dirti addio. Tuo figlio Michele mi ha chiesto di ricordarti a modo mio. Magari anche con un lieve sorriso che scivola ironico tra le labbra. Perché così a te sarebbe piaciuto. Uomo grande e forte, sensibile e generoso. Una roccia. E allora mi asciugo le lacrime dagli occhi e scrivo quello che molti sbagliano a definire un coccodrillo. Perché nel gergo giornalistico coccodrillo è un articolo commemorativo preconfezionato, mentre almeno io non ero ancora pronto che tu ci lasciassi e andassi a raggiungere Giulio Geroli, Gigi Marsico, Lino Palumbo e Paolo Brussato per formare lassù un quintetto di veri maestri di vita e di sport. Oltre che ovviamente di pallacanestro. Al di qua e al di là del Ponte della Libertà. Anche se non stavi bene da tempo: maledette sigarette. Però speravo che pure stavolta la morte non sarebbe riuscita a scalfire quella roccia che tuonava nella tempesta e con voce robusta ti dava la forza d’andare comunque incontro alla vita. Orgoglioso e sempre a testa alta. Come quel giorno che Mario De Stefani, il Professore, t’accompagnò in radio per la prima intervista. Eri da poche ore subentrato a Sergio Curinga alla guida del Basket Mestre che ho nel cuore e non passavi neanche dalla porta dello studio nello scantinato. Anch’io avevo una bella squadra: Claudio De Min, Adriano De Grandis, Alessandro Ongarato, Nino Vincenzi, Claudio Sassoli, Stefano Bozzi, Alberto Ciaccia e Guido Marcato. Forse anche meglio della tua Vidal, ultima in classifica di A2 con Rick Darnell e Mark Campanaro. E Pietro Generali che non aveva ancora vent’anni. Cazzo! Però adesso ti prego: non ridere come nella foto. Con quello sguardo compiaciuto e insieme incredulo. Perché mi viene di nuovo un groppo in gola. Era il 10 gennaio del 1978: lo ricordo benissimo e di lì a poco sarebbe stato inaugurato il Taliercio, la nostra casa. Che ora si è presa la Reyer di Napoleone Brugnaro che è di Spinea e quindi cosa vuoi che ne sappia, quel prepotente, della sana rivalità cestistica che ancora esiste tra Mestre e Venezia. Come tra Juve e Torino. E difatti il Taliercio non ce l’affitta ogni quindici giorni nemmeno alla domenica mattina. Eppure quest’anno il Basket Mestre va che è una scheggia: ha vinto tutte le quattordici partite del suo favoloso campionato di serie C gold, ma gioca a Trivignano. In aperta campagna. Dietro la chiesa e il campanile. Come vedi, non cambio neanche a Natale: se c’è una cosa che non mi va giù, la devo sputare. Subito. Almeno in questo, e solo in questo, un po’ ti somigliavo. Per il resto tu eri affascinante e io invece particolarmente odioso come oggi e come quando sono incazzato. Però non ricordo una volta nella quale non siamo andati d’accordo e non l’abbiamo pensata allo stesso modo nel basket. Nonostante tu fossi un reyerino proclamato, una colonna da giocatore della Misericordia, un figlio di Geroli e Marsico. Quindi, quando entrasti in studio da quella porta stretta, abbassando la testa per evitare che non ti spuntasse all’improvviso un bernoccolo sulla crapa pelata, chiedesti un pettine per farti bello alla radio e rompere il ghiaccio perché avvertivi che eri finito in un covo mestrino che ti guardava con sospetto e magari si chiedeva cosa era mai venuto a fare questo in terraferma. Ebbene, se mi credete bene, altrimenti è lo stesso, siamo usciti dopo un paio d’ore di diretta e di telefonate bollenti che era l’ora di pranzo e ci invitasti a bere uno spritz da Egidio alla Stiefel. Ma ci avevi già conquistati tutti. Poi magari si retrocesse lo stesso. Pur vincendo al Taliercio con la Canon di Paron Zorzi, promossa in A1, e la Pinti Inox del Barone Sales. Ma perdendo lo spareggio di Trieste con la Mobiam Udine. Che pure avevi battuto in casa e fuori durante la poule che allora si chiamava di classificazione. Ma chi se ne importa? Furono i migliori anni della nostra vita. Come cantava Renato Zero, di cui Roberto Zamarin era un amico quasi fraterno, e come mi hanno ricordato ieri De Grandis e Ongarato, il suo pupillo. Che allora sedicenne faceva le radiocronache di basket per NovaRadio meglio di Massimo Carboni. Lo giuro. Per non parlare di Ciccioblack Tranquillo. Ecco proprio di lui stavo ieri scrivendo e della sua Banda Osiris, “che strano!” lo sento brontolare ma subito anche aggiungere: “però guai a te se la smetti: mi diverti troppo”, quando la brutta notizia mi ha lasciato di sasso a metà di un pomeriggio nebbioso nel quale, disperato, ho cercato di ritrovare almeno nei ricordi quella figura di uomo imponente che s’imponeva e ti catturava al primo incontro. Se ne innamorarono anche i trentini di Rovereto e di Riva del Garda prima che fiorisse l’Aquila. Da Franco Grigoletti a Luciano Marcozzi. Incendiò di passione San Donà di Piave. Fece debuttare il quindicenne Andrea Forti a Bologna contro il Fernet Tonic di MaraMeo Sacchetti e Renzo Bariviera. Ma il suo capolavoro, fidatevi, fu quello di unire Venezia a Mestre come non ci è mai riuscito nessun altro. Due squadre con una sola anima: la sua. Che accompagneremo sabato al Duomo di Mestre per il suo ultimo viaggio prima che salga sopra le nuvole in quel mondo dei canestri che l’accoglierà a braccia aperte tra gli applausi. Garantendogli che qui sulla terra noi saremo stretti nel dolore e vicini alla cara Marina e ai suoi tre meravigliosi figli: Silvano, Michele e Matteo. Ai quali dirò quello che non ho mai detto a loro padre: ti volevo bene, mio unico Coach. E che lieve ti sia ora la terra.