Not my President: anche l’Italia si ribella al tiranno

petrucci

Mi sono perso la prima puntata di Basket Room o Basket Rom, chiamatelo come volete: la pallacanestro insomma degli zigani del carrozzone di Sky che non sarebbero neanche male se trovassero il coraggio di confessare quello che di Ciccioblack Tranquillo dicono alle spalle. Ovvero peste e corna. E non mi crederete, ma sono disperato. Perché l’ospite di lunedì scorso è stato Re Calcati o Re Carlo: sì, insomma, ci siamo di nuovo capiti. Mi interessava sentire che le aveva cantate pure lui a Giannino. Dopo Renato Villalta e tutto il gruppo degli azzurri d’oro di Nantes 1983. Che erano, sarà il caso di ricordarlo, Marzorati, Caglieris e Brunamonti, Riva, Sacchetti e Gilardi, Villalta, Bonamico e Tonut, Meneghin, Vecchiato e Costa. Io c’ero. E c’era anche il segretario Petrucci. Che un anno dopo organizzò un golpe proprio contro il mio amato cittì che aveva avuto il solo torto d’essere arrivato appena quinto alle Olimpiadi di Los Angeles. Ma si può? Come diceva quel presidente del Catania: “C’è chi può e chi non può: io può”. Difatti Valerio Bianchini di lì a poco sostituì Sandro Gamba alla guida della nazionale, comunque medaglia di bronzo agli Europei dell’85 a Stoccarda. Fu allora che il Principe Rubini diede a Giannino il soprannome di “cretinetti”. Come Franca Valeri chiamava il marito Alberto Sordi nel film di successo Il vedovo (1959) di Dino Risi. Vecchie storie. Che non vanno però dimenticate. Quelle d’oggi raccontano invece del tiranno di Valmontone che, pur uscito con le ossa rotte dal preolimpico di Torino, sarà lo stesso rieletto presidente della Federbasket il 17 dicembre prossimo. Come sia possibile una cosa del genere, è presto detto. E ve la ripeto: Petrucci è candidato unico. Ovvero nessuno ha osato non dico fargli la guerra, ma nemmeno il solletico. Alla faccia di un malcontento diffuso e di un dissenso popolare che i quotidiani ignorano, forse perché se li è comprati tutti, mensili compresi, ma che è un cartello di protesta “Not my President” che agitano già in molti anche per le strade d’Italia, da Trento a Reggio Emilia sino a Siena, Roma e oltre. Non trascurando le piccole regioni del Sud come il Molise e l’Abruzzo. Dove tra i più accaniti contestatori di Giannino c’è pure l’arbitro dell’Eurolega, non di certo mio amico, Citofonare La Monica. Al quale il sindaco del Circeo aveva promesso mari e monti. Forse anche l’ambiziosa poltrona di commissario federale degli arbitri che però avrebbe dovuto togliere sotto al sedere di Stefano Tedeschi, presidente ricco e potente dell’Emilia-Romagna, nonché suo probabile successore nel 2024. Sia mai. E allora? Non se ne è più fatto niente. Ridete? E fate bene. Sentirmi infatti parlare di politica cestistica è anche per me grottesco. Ma non posso nemmeno far finta di niente. Come Donald Trump se non sentisse dal 58esimo piano della sua mansarda dorata sulla Fifth Aveneu le grida dei giovani manifestanti in strada difronte alla Trump Tower. Perché se è vero che magari Petrucci si è tirato dalla sua parte Brunamonti e Costa, gli altri dieci azzurri di Nantes la pensano esattamente come Villalta e cioè che, dopo la disfatta con la Croazia, Giannino avrebbe dovuto dignitosamente dimettersi. E invece dal giorno seguente il preolimpico di Torino ha costruito massone dopo massone la sua rielezione per altri quattro anni di tirannia sotto vuoto spinto. Mettendosi nelle mani della Lombardia e di Alberto Mattioli, il Richelieu cadorino poi bergamasco che il 17 dicembre gli porterà su un piatto d’argento i voti e le deleghe di tutti i comitati regionali del BelPaese. Sì, anche del Veneto: avete letto bene. Ma come? Non aveva forse il padovano Roberto Nardi battuto a sorpresa il petrucciano di ferro, Bruno Polon da Treviso, e pure nettamente (113-80)? E così mi sarei aspettato che almeno i delegati veneti del primo partito italiano d’opposizione a Giannino infilassero nell’urna cinque schede bianche. No. Mattioli, in nome della storica alleanza tra le due autorevoli regioni del Nord, ha convinto persino Nardi a schierarsi dalla parte del tiranno di Valmontone per un trionfo annunciato col cento per cento dei consensi dei votanti. In cambio di cosa? Questo lo saprò strada facendo. Intanto, mentre bisogna che mi ricordi di registrare la puntata di lunedì di Basket Room, o Rom?, dove sarà ospite Max Chef Menetti, e di farmi subito il vaccino contro la Banda Osiris, vi butto là i nomi di tutti gli uomini del presidente. Cioè dei dodici apostoli del consiglio federale per il prossimo quadriennio: Laguardia confermato vice (storcendo il naso), Marchiori (Veneto), Arletti (Emilia), Tajana (Legnano) e Rossini da Battipaglia. Più Ario Costa, Jack Galanda, tal Petrini e De Angelis (Schio). Di cui vi avevo già parlato. E sono nove. Più si parla di Picchio Abbio (ex Virtus Bologna), Invernizzi e Nini Gebbia, fratello del più famoso Gaetano. E se ne ho sbagliato qualcuno, che Giannino mi tagli pure la lingua. Magari nell’attesa cercando il suo Giuda.