Venezia è ancora più bella ai tempi del carognavirus

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Di colpo il p.c. mi ha piantato in asso. Proprio il giorno di Pasquetta. Una cosa da nulla, una sciocchezza, mi hanno spiegato stamattina quelli che se ne intendono e che mi hanno venduto il Lenovo ThinkPad X1 Extreme Nero Computer che, con tutti questi nomi, non poteva che essermi costato una cifra. Bastava tenere premuto per dieci secondi il piccolo tasto dell’accensione in basso a destra. Vallo a sapere. E comunque ho fatto la solita figura dell’ignorante. Cioè di colui che non sa. Come quelli che votano Salvini o la Meloni, Fontana o Zaia, e li rivoteranno non appena ne avranno di nuovo l’occasione. Della qual cosa sono praticamente certo al 99 per cento perché sono un inguaribile ottimista e allora spero sempre di poterne trovare almeno uno che per miracolo rinsavisca mentre salta come una scimmia dal Carroccio a Fratelli d’Italia. O viceversa. Del resto delle nuove tecnologie non ho mai capito una mazza. E non sono il solo della mia generazione di giornalisti in pensione. Orfani di Gianni Brera e ora di Gianni Mura. Che in fondo aveva appena quattro anni più di me. Quando i quotidiani erano milioni di caratteri di piombo tutti allineati e le pagine non erano fatte di gomma, come ripeteva ogni sera il grande Saverio Sardone, che il primo d’aprile ha compiuto 81 anni, invitandoti a tagliare il pezzo senza fare tante storie. Si scriveva su Olivetti che pesavano una tonnellata e che non potevi quindi tirare dietro a nessuno, neanche a Gianmaria Gazzaniga, buonanima, o a Marino Bartoletti, senza correre il rischio di sentire un crack alla schiena. In trasferta dettavi l’articolo allo stenografo, un mestiere che adesso è protetto dal Wwf, anche da una cabina telefonica a gettoni nel deserto con 45 gradi all’ombra. Come successe a me quella volta alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984: Edith Gufler aveva vinto la prima medaglia di quei Giochi per l’Italia, che solo più tardi scoprii fosse d’argento, con la carabina (10 metri) ad aria compressa mentre stavo seguendo con il mitico Carlo Gobbi della Gazzetta il leggendario Luciano Giovannetti, bicampione olimpico, che nel piattello fossa era in testa alla classifica con una sola doppietta sbagliata per ogni serie assieme all’idolo di casa, il borioso cowboy del Texas, Daniel Carlisle. Della ragazza di Merano, che sparava in un poligono qualche miglia più lontano dal campo di tiro, non sapevo invece nemmeno se fosse bionda o mora. Aveva senz’altro le treccine e doveva piacerle il pane nero col burro di malga e la marmellata. “Settanta righe a braccio che poi ci pensiamo noi in redazione a metterle a posto. Ti passo gli steno” mi disse perentorio Sardone senza neanche attendere la mia risposta. Era mezzogiorno di fuoco in California e così iniziai il mio racconto mentre al Giorno stavano chiudendo la prima edizione e non c’era altro tempo da perdere. Insomma mi andò bene. Tanto bene che il direttore Guglielmo Zucconi mise l’incipit del pezzo in prima pagina. Edith era tale e quale a Calamity Jane, solo forse molto meno spregiudicata nella vita di tutti i giorni. Aveva i capelli color delle spighe di grano maturo raccolti a treccia. Parlava l’italiano dei tirolesi. “Quando non sparo, aiuto il papà alla pompa (di benzina)”, ci raccontò più tardi e non riuscimmo a trattenerci dal ridere. Negli anni del piombo (e non ancora di piombo) si passava l’inchiostro nero sulla pagina per fare le bozze e andare poi a caccia dei refusi e dei righini. Che proprio all’esame per diventare giornalista professionista mi domandarono cosa mai fossero. Nel caldo giugno dell’80. Alla sera le tipografie dei giornali erano all’epoca più rumorose e frenetiche del mercato del pesce al mattino a Rialto. Parlo di quello di un paio di mesi fa. Prima del carognavirus. Oggi Venezia, che è sempre stata un incanto, se possibile è ancora più bella. E non dovete stupirvi. Ieri non parlava e ovviamente era triste, mi ha raccontato un vigile urbano in servizio anche a Pasqua. Le strade vuote senza bancarelle. Le calli con il sole. Le rive bianche e le piazze pulite. Acqua azzurra, acqua chiara: limpida e brillante. Tanto da vedere dai ponti i pesciolini sciamare nel canale. Guardate la foto: è il tramonto e pare l’alba. Una meraviglia. Pensate piuttosto quanto male abbiamo fatto a Venezia per ridurla nelle condizioni in cui era a novembre con l’acqua alta. E la colpa è soprattutto nostra. Cioè di quelli della nostra generazione che si è preoccupata più di se stessa che dei suoi figli e dei suoi nipoti. E pensate anche a quando tutto tornerà come prima. Purtroppo, mi viene d’aggiungere, perché ora divento molto pessimista: resto convinto infatti che neanche questa pandemia riuscirà a cambiarci le zucche. Già le grosse aziende stanno divorando le piccole. Già i grandi evasori stanno cercando di nascondere i soldi nei loro paradisi fiscali. Già non ne possiamo più di queste televisioni che non parlano d’altro se non del Covid-19 e sono angosciati come Sky se i campionati degli Agnelli e degli Squali, dei cinesi e dei Lotito, non ricominceranno prima dell’estate. Vergognatevi. Si deve tornare a vivere. Questo è vero. Ma come? Non come prima. E senza fretta. Altrimenti lasciatemi pure rintanato in casa. Tra le mie cose e i miei ricordi. Raccogliendo l’appello di Piero Angela che è un uomo saggio e virtuoso. “Scrivete le vostre memorie: sarà una cosa utile per passare il tempo e per riscoprire la vita, per riflettere, ma anche per lasciare ai vostri nipoti e pronipoti un mondo che loro non hanno visto e di cui sanno veramente poco”. E’ per questo che oggi vi ho raccontato degli stenografi che erano preziosi almeno quanto i giornalisti e dei quali probabilmente Dodo, Rocco e Sofia non avevano mai sentito parlare. Ieri sera non mi sono perso su Raisport Italia-Germania 3-1, la finale del Mundial spagnolo del 1982, e giuro che non me la ricordavo così. Eppure c’ero. Lo splendido cross di Claudio Gentile per l’1-0 di Pablito. Di testa anticipando Cabrini. Dino Zoff che esce su un corner a vuoto e si ritrova la palla tra le mani chissà come. Ma cos’era Bruno Conti? La difesa a cinque di Enzo Bearzot. Con Scirea libero e Bergomi su Rummenigge. Paolo Rossi che tornava elegante a centrocampo per far respirare la squadra. E cos’era Schizzo Tardelli? A parte il gol e il suo urlo. E Lele Oriali? Un demonio. Senza Antognoni e Graziani. Mentre di Edith Gufler non ci sono neanche più le immagini e nessuno mi dice nulla di come se la passa Luciano Giovannetti, 74 anni, pistoiese di Bottegone che mi avevano detto non stesse bene né di salute, né di portafoglio. Quanto alla pallacanestro credo che le pagelle sulla serie A possano aspettare ancora un giorno se è passato un mese da quando Cruciverbo, uno dei Bartezzaghi, ha intervistato il caro Paron Zorzi nella sua casa a Gorizia e non si è più fatto sentire nemmeno con una riga. Scandalosi, lui che del basket della Gazzetta è diventato il capo e pure chi l’ha decorato non so per quali meriti. Quasi come il Gazzettino che non propone poco o nulla di più delle foto dei carabinieri che pattugliano Riva degli Schiavoni o dei droni sulle spiagge di Jesolo o delle lettere che si scrive il direttore Roberto Papetti che sono di un qualunquismo cosmico. E delle meraviglie di Venezia triste e muta quasi niente. E’ ormai sera. Mi dicono sia tornata la primavera e io non me ne sono ancora accorto. So che nel pomeriggio è anche piovuto e che stamattina si sono svegliati i medici d’ematologia per propormi quattro mesi di ciclo di chemio e mi andrebbe, se li facessi, anche di lusso paragonandoli ai diciassette che ha dovuto spararsi per guarire Gianluca Vialli, ideale compagno di viaggio nel volo che da Roma ci portava in Messico, con scalo a Chicago, per gli sfortunati Mondiali dell’86. Dove a Puebla mi ruppi il crociato del ginocchio destro in un avventuroso contrasto con Giampiero Galeazzi di cui vi parlerò magari un’altra volta. L’arbitro dell’amichevole in alta quota tra giornalisti della carta stampata e quelli televisivi era comunque Gianni Rivera. Non so se mi spiego. Adesso invece piango Franco Lauro, che mi divertivo a chiamare Laurito. Aveva 58 anni, ma gliene davo qualcuno di più. Forse perché è arrivato al basket come bordocampista di Gianni Decleva in Rai che aveva solo ventitré anni e tanti capelli. Poi se lo prese il calcio con tutti i suoi luoghi comuni e gli insopportabili salamelecchi di salotto. E non l’ho quasi più sentito. A parte un’allegra rimpatriata e una cena di pesce sino all’alba di parecchio tempo fa da Anna e Otello a Mira, sulla Riviera del Brenta. Con Marco Bonamico, Attilio Caja, Andrea Tosi, Franz Arrigoni e Fabrizio Pungetti dopo una partita di A2. Nel 2003 ha condotto proprio con Bisteccone la Domenica Sportiva del cinquantenario. Più una buona spalla che un fuoriclasse. Più Stefano Bizzotto di Beppe Viola, ma sicuramente un bravo ragazzo che telefonava tutte le sere alla cara mamma. A Pasqua ci ha salutato dandoci appuntamento a domenica prossima. Senza immaginare che non era un arrivederci, ma un addio. Dal paradiso dei canestri e non del fòlber: ne sono certo.