L’hole in one di Chicco Molinari e Renatino Paratore che è già un grande a diciott’anni

Vado di fretta, ma ve l’avevo promesso che sarei tornato nel deserto ed eccomi qui, con la sabbia negli occhi, che mantengo la promessa. Anche se calcio e basket mi guardano di traverso quando li trascuro per il golf e non hanno in verità tutti i torti. Se infatti il golf è uno sport bellissimo, non merita in Italia più di una toccata e fuga in re minore perché purtroppo, come vado ripetendo da tempo, lo giocano i golfisti. Che, quando ti va bene, sono magnifici bugiardi, come Billy Clinton e Tiger Woods, ma più spesso ancora sono insopportabili, vanesi e egoisti. E questo è purtroppo un (loro) handicap mica da poco. Però resta uno sport bellissimo per tutte le età della vita. Quando sei giovane e la schiena ti gira come un cavatappi che di solito stappa buon vino, per non dire ottimo nel caso di Matteo Manassero e adesso di Renato Paratore. Ma anche quando sei avanti con gli anni, magari già in pensione e con la schiena a pezzi, ma hai tutto il tempo che prima non avevi per divertirti sui fairway e sui green, passeggiando tra parchi incantevoli e indovinando persino qualche colpo ad ogni morte di papa. In più il golf è uno sport molto televisivo e quindi stupendo da raccontare. Nonché abbastanza semplice una volta che hai imparato quattro parole in croce d’inglese: birdie, bogey, eagle e rough. E sai distinguere un putter da un driver e un ferro da un legno. Vado di corsa e allora vi dico subito che dal deserto di Phoenix, in Arizona, e da quello del Dubai, negli Emirati Arabi, sono piovute durante il fine settimana sul mio block notes una pioggia di notizie, una più carina dell’altra. Tanto che non so quale scegliere e da dove cominciare. Dalla buca in uno di Francesco Molinari o dalla conferma che Renato Paratore a diciott’anni è già un grande? Dall’ultimo posto di Tiger e dal peggior giro in 82 colpi (+10) realizzato da Woods in 317 tornei da lui disputati nel Pga Tour o dalla crisi nera di Matteo Manassero che per la quarta volta consecutiva non ha passato il taglio? Da Sergio Garcia che a poche settimane dalle nozze, scimmiottando Rory McIlroy, ha deciso di non sposarsi (mai?) più o dallo stesso ricciolino irlandese che, vincendo a Dubai, s’è confermato il numero uno al mondo con il quarto successo ottenuto nelle ultime sette tappe dell’European Tour che ha giocato? O dalla paurose braghe da Scaramacai, a disegni giallorossi, di quel matto di Pat Perez che neanche il tatuatissimo Nainggolan avrebbe il coraggio di portare? O dall’eagle di Brooks Koepka che con un putt da fuori green, distante almeno dieci metri, sinistra-destra in discesa, si è sbarazzato alla quindici della pericolosa compagnia di Bubba Watson, Matsuyama e Palmer e ha trionfato a Phoenix? Noblesse oblige: è l’hole in one di Chicco che merita indiscutibilmente il primo posto nella hit parade del golf nel deserto. Anche perché ottenuta alla 16 di Scottsdale, una buca che già Tiger rese famosa quando, nel 1997, imbucò, come sabato è riuscito a Francesco Molinari, con un solo colpo dal tee di partenza e un volo di circa 120 metri. Davanti a ventimila e oltre persone in delirio e tutte stipate come sardine sulle tribune che circondano la buca a mo’ d’anfiteatro romano o di colosseo, come lo chiamano vaneggiando gli americani dell’Arizona. E da lì hanno buttato giù sul green tutto quello che avevano in mano. Soprattutto lattine di birra. Per far festa al pitching wedge del nostro campione in maglietta verde e le orecchie rosse come un peperone. O come quelle di Renatino Paratore che, secondo alla 10 dell’ultimo giro dell’Omega Dubai Desert Classic con Westwood e Noren, a quattro colpi dal leader indiscusso McIlroy, è arrossito per aver fatto bogey alla buca successiva dopo aver tirato per il birdie e aver fallito anche il par da neanche un metro. Succede. Soprattutto a diciotto anni, un mese e diciotto giorni. E sei per la prima volta in campo assieme e accanto alle stelle del golf europeo. Ma il suo tredicesimo posto finale vale almeno il ventiduesimo di Chicco nel Pga Tour di Phoenix. O anche di più. Lo si può di certo dire. Tanto non c’è pericolo che il romano del Parco di Roma si monti la testa. Perché ce l’ha sempre ben attaccata al collo.