1-2 maggio, giovedì e venerdì Adesso ho finalmente capito perché l’abbonamento al Venezia Calcio in tribuna laterale bianca e coperta over 65, settore B13, non mi è in fondo costato l’occhio della testa. Punto primo: sei fastidiosamente circondato dai tifosi ospiti che, se sono napoletani o di quelle parti, non sono capaci di starsene zitti e buoni un solo secondo, ma ti urlano di tutto nelle orecchie sino a spaccarti l’incudine e, già che ci sono, pure il martelletto. Al quale sono particolarmente affezionato per una ragione che non sto qui ora a spiegarvi. Uomini e donne, senza distinzione di sesso. E forse le donne anche più sfegatate degli uomini. Quando non insultano i padroni di casa sbattendoti in faccia le loro sciarpe o i loro fazzoletti cerulei non certo profumatissimi. Come hanno fatto con me più volte finché non ho perso la pazienza e gliele ho cantate a modo mio. Punto secondo: vedo sempre una porta come avesse un unico palo, e non due, dal momento che ce l’ho proprio diritta sulla punta del naso a sinistra dell’estremo difensore coi guanti e il cappellino per ripararsi dal sole. Che domenica era eccezionalmente bello e caldo prima di farsi un tocio (tuffarsi) in laguna. Mentre l’altra porta, quella più lontana, in faccia agli ultras arancio-nero-verdi che cantano sempre la solita lagna, la vedo e non la vedo perché ho giusto in mezzo agli occhi uno di quei grossi pali di ferro che sorreggono il tetto della tribune e gli appartamenti dell’attico. Che frequentavo anch’io per vedere tranquillamente la partita dall’alto al basso. Nei tre anni in cui sono stato responsabile del marketing e dell’ufficio stampa del Venezia dei fratelli Arrigo e Ugo Poletti e di Vincenzo Marinese. Con Andrea Seno brillante direttore generale e la serie B sfuggita nelle finali dei playoff col Pisa. A meno che non m’affacci come a un davanzale spostando la crapa ora di qua e ora di là dando ovviamente fastidio a chi mi sta seduto al fianco. Come a mio fratello Roberto pazientissimo. E comunque lasciando ogni volta in vaporetto l’isola di Sant’Elena con un tremendo torcicollo. Oltre che con la rabbia dentro per i punti regolarmente rubati dagli indesiderati ospiti. Ad eccezione dei bergamaschi di Gian Piero Gasperini che al Penzo hanno per la verità vinto (0-2) con largo merito. Ma sono stati gli unici. Intertristi e bolognesi compresi.
Tutto questo vi ho raccontato nei minimi particolari, forse anche magari eccedendo, non lo nego, ma volevo essere capito quando dalla scomoda posizione nella quale mi trovavo ho gridato allo scandalo, alzandomi di scatto in piedi, per una clamorosa spinta in area del rossonero Pavlovic ai danni di Yeboah che l’arbitro Manganiello ha ignorato o, meglio, ha fatto finta di non vedere pur essendo lui a due metri dalla porta difesa da Maignan ed io invece ad un centinaio. Con l’odioso palo di ferro e il sole negli occhi. Erano i primi minuti della ripresa e, se Nicolussi Caviglia avesse fatto centro dagli undici metri, il Venezia avrebbe intanto pareggiato il conto e poi magari pure vinto il duello con un Milan che sino a quel momento non mi pare avesse avuto una gran voglia d’irrobustire il suo confortante ottavo posto in classifica che nessuno gli potrà mai portar via. Men che meno il Toro di Urbano Cairo che lo insegue con una decina di lunghezze di ritardo e che proprio domani sera, guarda caso, ospiterà Jay Idzes e i suoi sventurati compagni di squadra che fuori casa in questo campionato non hanno ancora raccolto un successo manco per sbaglio. Fosse che fosse la volta buona. Chissà. Ma ci credo poco. Anche in considerazione del fatto che Eusebio Di Francesco, brava persona e buon tecnico, non mi sembra che sia di certo nato con la camicia. O che comunque se la sia dimenticata a Roma quando ha lasciato la capitale per andare ad allenare una Sampdoria già allo sfascio.
Vi conosco, mascherine. Dite la verità: non v’interessa adesso tanto sapere come la penso in merito all’eventualità molto improbabile che il Venezia si possa salvare nelle ultime quattro giornate di campionato: Torino e Cagliari in trasferta, Fiorentina e Juventus al Penzo. Servirebbero almeno sei punti. Per andare allo spareggio e prendere il Lecce che ne ha oggi due in più, ma che più di quattro non dovrebbe farne da qui a fine mese col Napoli e il Torino e a Verona o a Roma contro la Lazio. Ma soprattutto per tenere il passo dell’Empoli che giocherà ben tre volte al Castellani con Lazio, Parma e Verona e una sola fuori, per giunta col Monza già in B. Insomma mi sbaglierò anche, e sarei felicissimo di farlo, ma sarebbe parecchio meno complicato che la pietosa Reyer di Olivetta Spahija riesca a vincere lo scudetto della pallacanestro, facendo un sol boccone nei playoff di Virtus, Armani e Trapani o Brescia, piuttosto che il Venezia spuntato e in bolletta di Duncan Niederauer resti nella massima serie cominciando col vincere subito a Torino e poi magari pareggiando gli ultimi tre match.
A voi mascherine, lo so, non ci vuol molto a capirlo, ora vorreste che finissi di raccontarvi cosa ho cantato in faccia a quella tifosa partenopea, né bella né simpatica, e nemmeno tutta pelle e ossa, che mi ha spappolato il martelletto urlandomi nel timpano e pure i marroni sventolandomi sul muso la sciarpa biancazzurra, ma sinceramente è passato addirittura un mese e mezzo dallo 0-0 del Penzo che avrebbe potuto costare al Napoli del mio Conte Antonio la conquista dello scudetto se l’Inter non avesse perso a Bologna e a San Siro con la Roma e non fosse pilotato da Inzaghi(no), il disadattato fratello di Pippo che difatti a Piacenza, quand’era piccolo, tutti chiamavano Pippa. E quindi è abbastanza plausibile che alla mia tenera età non ricordi quasi più niente dell’accaduto. Se non che mi sono di corsa vigliaccamente rifugiato sotto l’ala dell’amico comandante dei carabinieri di Cannaregio quando mi sono sentito circondato come il generale Custer dagli indiani Sioux di Cavallo Pazzo e Toro Seduto nella battaglia di Little Big Horn e ho temuto di poter fare la sua stessa brutta fine.
Scherzi a parte, ma non troppo, e tornando all’episodio del rigore grande come una casa non dato domenica al povero ecuadoriano nato ad Amburgo, al quale già Manganiello aveva annullato un magnifico gol per fuorigioco dell’esausto Busio, c’ero rimasto davvero male quando non avevo trovato domenica alleati in tribuna attorno a me, peraltro infestata da timidi fans del Diavolo, nel contestare quell’asino, oltre che vanesio, di direttore di gara che porta sempre le mutande a strisce rosse e nere. Il quale non era ricorso nemmeno al Var di Lissone, in provincia di Monza, che gli avrebbe senz’altro fatto cambiare idea sul contatto falloso in area di Pavlovic addosso a Yeboah. Eppure, mi ripeto, la massima punizione da fischiare era lampante e sacrosanta. Come per fortuna ho avuto poi conferma dalle furenti dichiarazioni di Di Francesco nel dopo gara e dai giornali. E persino dalla Moviola della Gazzetta siglata f.li., alias Filippo Cornacchia: “Si può in effetti discutere sull’intervento di Pavlovic su Yeboah: contatto, il serbo spinge e rischia, l’arbitro giudica che è poco per dare rigore”. Poco? Del resto Pavlovic non ha mica usato l’ascia di guerra per spezzare in due la schiena del moretto tutto di bianco vestito con il colletto arancione della blusa: questo è vero!
Martedì poi ho avuto da Marco Bampa, vecchia firma del Gazzettino, totale appagamento: “Resta ancora viva la sensazione che la sconfitta del Venezia sia maturata anche a causa di un’ingiustizia”. Che non è nemmeno la prima della stagione, ma l’ennesima dopo i rigori non concessi solo una settimana prima proprio nello scontro diretto d’Empoli quando “basta ricordare sul 2-2 in pieno recupero l’evidente trattenuta per la maglia ad Haps da parte di Ebuhei, senza dimenticare il precedente intervento da dietro di Cacace su Zerbin”. D’accordo, ora i benpensanti ad un tanto al chilo diranno che in un campionato gli errori arbitrali s’equilibrano sempre ai vantaggi ricevuti. Discorsi sesquipedali e sciocchi, ma soprattutto falsi. Almeno se rivolti alla squadra ben costruita con tanto amore e senza soldi dal diesse Filippo Antonelli. Anche perché non posso dimenticare i torti arbitrali subiti quest’anno dai neroverdi, che d’arancio hanno davvero poco, nei doppi confronti persi di misura con la Roma o a Parma. Soltanto per citare i più clamorosi. Mentre il Var è prepotentemente intervenuto per convincere Maria Sole Ferrieri Caputi ad annullare in Inter-Venezia 1-0 la rete all’ultimo secondo del 98esimo minuto di Sverko per un suo fallo di mani che solo la telecamera personale di Beppe Mar(m)otta aveva visto.
Serve aggiungere altro? Non credo. E difatti qui mi fermo chiedendo scusa agli aficionados del basket che magari mi hanno sopportato sin qui sperando che almeno in coda al pezzo non avessi più parlato di pallone, ma almeno della Reyer come avevo anticipato nel titolo. E comunque, checché ne abbia detto Olivetta al termine della vergognosa sconfitta di domenica al Taliercio dei suoi svogliati fricchettoni con Pistoia già retrocessa, non è stata rapinata da Michele Rossi l’aretino, e nemmeno dagli altri due fischietti Gabriele Bettini e Gianluca Capotorto, che hanno fatto bene a non punire con un antisportivo il fallo finale di tale Benetti Gabriele su Jordan Parks il Fenomeno. Al quale l’amico Stefano Babato, che presto andrà in pensione dal Gazzettino, è stato buono di cuore a dargli un generoso 5 in pagella come al nazionale azzurro Davide Casarin che stavolta per la verità è stato utilizzato appena dieci minuti da Spahija. Nel corso dei quali il figlio del vicepresidente vicario della Federbasket, che stipendia gli arbitri della nostra serie A, non ha peraltro segnato nemmeno un punto come sovente gli è purtroppo capitato durante tutto questo campionato. Peccato. Intanto di nuovo ho scritto questo articolo nell’arco di ventiquattr’ore, però stavolta non l’ho fatto apposta. Lo giuro. E’ che ieri sera, poco prima di mezzanotte, oltre la quale non vado stando seduto davanti al computer altrimenti poi non chiudo più occhio, non so cosa abbia mai combinato, ma ho premuto senz’altro un tasto sbagliato che mi ha cancellato due cartelle di roba e mi ha spinto a letto sacramentando sotto le coperte. A domani. Aspettando Così magari vi spiegherò anche il significato della foto che ho scattato domenica tornando da Sant’Elena prima di piazzale Roma. In quale fondamenta? Chissà chi lo sa. Un bel premio a chi indovina.