25 gennaio, sabato Posso io ricordare Drazen Dalipagic meglio del maestro Boscia Tanjevic? No, mai. Anche se c’ero quel giorno in cui segnò la sua, la mia e la nostra vita d’innamorati pazzi per questo gioco che Praja chiamava pallacanestro e non basket. Era il 25 gennaio 1987. Esattamente come oggi 38 anni fa. Fatalità. All’Arsenale di Venezia contro la Virtus di Bologna sponsorizzata Giomo e allenata da Sandro Gamba, il mio amato cittì che tutte le aveva studiate perchè Renato Villalta, Greg Stoke o Domenico Fantin limitassero quel diavolo in attacco. Dalipagic era il numero 15 della Reyer del Paron, Tonino Zorzi, che senz’altro l’ha amato molto più di Oscar, un altro grande tiratore di quell’epoca d’oro che non vivremo più. E non perché siamo vecchi, anche, ma perché giocatori di quella grandezza non ne nascono più. Almeno in Europa. Quel giorno Drazen realizzò la bellezza di 70 punti che è ancora record del campionato di serie A. Un primato che spero, e sono sicuro, nessuno riuscirà mai a battere.
“Eravamo nel 1971 sullo stesso treno che andava a Sarajevo, eppure non ci siamo incontrati”. Ricorda Boscia a modo suo commosso. “Peccato. Perché Praja giocava a Mostar nella sua città natale e doveva passare al Bosnia, ma fu ceduto al Partizan di Belgrado un giorno prima che a me chiedessero di smettere di giocare per cominciare ad allenare proprio la squadra della capitale bosniaca. E accettai due stagioni dopo. Troppo tardi. Lui aveva già vinto la classifica dei capocannonieri jugoslavi”.
“Tirare e segnare, questo era Dalipagic. Nato per far questo. Anche se cominciò a giocare a pallacanestro che credo avesse diciassette anni se non diciotto. Era un talento anche nel calcio e soprattutto nella pallamano. E non era solo un ostinato e fanatico tiratore. Difatti, anche in occasione del record di 70 punti all’Arsenale, di triple ne realizzò appena cinque”. 5/9 da tre, 18 su 23 da due e 11/11 dalla lunetta. Nel senso che sapeva fare molto ma molto altro. E assai bene. Intanto non ammazzava il gioco con i suoi canestri, ma aveva nell’anima il senso del gioco e gli altri, giocando con lui, si divertivano. Anche perché spesso e volentieri vincevano. Palleggiava poco, se non il minimo necessario, e si liberava sempre della palla in fretta. Ma soprattutto usciva svelto dai blocchi che lui s’immaginava o, meglio, s’inventava: una meraviglia. Con gli avversari che andavano a sbattere contro gli alberi nel bosco”.
“Certo il tiro da tre punti era la sua specialità infilandone sempre almeno due su tre. Insomma il 67 per cento nel Partizan come nella Reyer. Amava l’Italia. E Venezia amava lui. Praja poi stravedeva per la nazionale con la quale vinse l’Olimpiade di Mosca, Mondiali ed Europei. Per la quale rinunciò a 25 anni ad andare a giocare a Boston nei Celtics come lo aveva consigliato pure Kreso Cosic. Per questo anche l’ultima volta che l’ho incontrato a Belgrado in una delle nostre solite cene di gruppo gli ho dato, scherzando, dello scemo o del cretino: infatti allora seppe dire no a qualcosa come mezzo milione di dollari, ovvero venti volte più di quel che guadagnava a Zagabria. E lui rideva. Divertito. Sotto ai baffi. Stava già male, aveva un tumore al pancreas, ma non ne voleva parlare”. Un paio d’anni fa a me infatti non disse nulla. Si preoccupò invece di come stavo io avendo saputo che non me la passavo bene. “Era un uomo di cuore, un uomo di strada, un uomo che non l’ho mai sentito vantarsi delle sue vittorie e dei suoi incredibili canestri”.
Addio Praja. Ti abbiamo voluto tutti bene. Conoscerti è stato un privilegio. Così come vederti giocare con qualsiasi maglia è stato un piacere. Grande tra i grandi del tuo Paese: Mirza Delibasic, Dragan Kikanovic, Drazen Petrovic, Vlade Divac, Toni Kukoc. Il paradiso terrestre. Di cui ha scritto il più bravo telecronista di basket della storia, Sergio Tavcar, altro che Aldo Giordani, in un libro del 2017 che devo assolutamente recuperare e rileggere. Nel quale accostò nel racconto Dragan Kicanovic a Drazen Dalipagic. “Due tiratori straordinari. A Belgrado i tifosi del Partizan li chiamavano “Kica i Praja, probede bez kraja”. Kica e Praja vittorie senza fine. Ad un certo punto in nazionale arrivò Nikolic come allenatore. Uno pignolo e perfezionista fino allo sfinimento ed il suo impatto con i giocatori abituati al regime molto liberale del precedente selezionatore Novosel, fu notevolmente traumatico. Una leggenda metropolitana narra che, ad un dato momento, durante la preparazione, Dalipagic si fosse recato da lui a nome di tutta la squadra. “Coach forse sarebbe meglio che ascoltasse anche cosa vogliamo noi. Perchè lei il campionato senza di noi non potrà vincerlo, mentre noi, anche senza di lei, potremmo probabilmente vincerlo ugualmente”. Parole sante. E che lieve, caro Praja, ti sia la terra.