Le mie interviste: Max Chef Menetti, coach del 2015

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Vi ripropongo oggi, ultimo giorno del 2015, un articolo-intervista che ho scritto per SuperBasket a metà ottobre e che ho chiuso più o meno dicendo che per me Massimiliano Menetti sarebbe stato l’allenatore dell’anno 2016. Non mi ero e non mi sto sbagliando: Reggio Emilia è infatti in testa al campionato ad una giornata dal termine del girone d’andata e, vincesse domenica a  Bologna, sarebbe anche campione d’inverno. E comunque, non me ne voglia MaraMeo Sacchetti, ma è stato Max Chef Menetti il miglior coach dell’anno al quale stanotte, a mezzanotte, daremmo l’addio festeggiando l’arrivo del nuovo. Cin cin. Alla nostra.Pensavo che i segreti sono come le bugie. O sono grandi e allora li tieni tutti per te. O sono mignon e allora non vedi l’ora che li sappia il mondo. Come quelli tra me e Max Chef Menetti. Così piccoli che ve li posso anche subito svelare. Il primo: non lo conoscevo, è ovvio tete-a-tete, prima di gara 1 di semifinale scudetto degli ultimi playoff tra Venezia e Reggio Emilia. Quella sera si giocava anche Milano-Sassari, e clamorosamente vinse il Banco di Sardara, e mai avrei pensato dopo cena di sganciarmi dall’avvincente partita sulla Rai radio televisione italiana. Quando mi telefona Alessandro Dalla Salda. “Perché non fai un salto qui da noi? Siamo in ritiro a Mogliano Veneto. Beviamo un caffè insieme. Così conosci Max. Ti va?”. Massì. Anche se il caffè non lo prendo mai dopo cena: altrimenti poi faccio fatica ad addormentarmi. Come Max. Ricordo che era una serata dolcissima di fine maggio. Di quelle che invitano a star fuori e a distrarti cantando “son tornate le lucciole a Roma: nei parchi del centro l’estate profuma”. Grande Jovanotti. Che alla pallacanestro ha dedicato pure un video: “Non m’annoio”. Mi ricordo anche che quella sera beccai un autovelox e due punti in meno sulla patente. Ancora sette e me la tolgono.  Né posso dimenticarmi che mi sono smarrito per le strade a chiocciola delle mie campagne. Eppure la villa veneta che ospitava la Grissin Bon non è poi così distante da quella di Napoleone Brugnaro. Ed è di lui che abbiamo cominciato a parlare nel giardino davanti allo splendido parco di Villa Marcello Giustinian. Mentre i giocatori si ritiravano nelle loro stanze. Kaukenas con l’inseparabile borsa di ghiaccio e Lavrinovic con le cuffie alle orecchie. Del resto due giorni dopo a Venezia si sarebbe votato per il nuovo sindaco e il presidente della Reyer avrebbe conquistato il diritto al ballottaggio con Felice Casson. “Ma ce la fa Luigi Brugnaro?”, mi chiese Max. “Non credo”. Difatti. Ne azzeccassi mai una. In verità qualche volta anche ci piglio. Per esempio mi sono subito detto: questo allenatore mi piace. Non se la tira, non è angosciato, trasmette a pelle simpatia e sicurezza, non piagnucola. Insomma ci siamo presi al volo. Il secondo segreto tra me e lui sono le quattro chiacchiere che con Menetti andai a fare una mese dopo a Grado. Dove era in vacanza con la famiglia: la moglie Maria Pia e la figlia Alessia Nives ora di un anno e mezzo. L’estate era esplosa e quel giorno poi faceva particolarmente caldo. Si sudava infatti anche sotto l’ombrellone in costume da bagno. “Conosco però io un posto dove staremo bene”, mi disse accompagnando l’invito ad una preghiera: “Vorrei che a pranzo venisse anche il Paron che so essere un tuo amico”. Come no? Con lui mi sento quasi ogni giorno, gli risposi sapendo che l’incontro si sarebbe potuto fare senz’altro. Tonino Zorzi trascorre difatti tutta l’estate a Grado e non c’è mattino che non giochi a golf nella tenuta di Primero. Lo passo a prendere. E così ho fatto: si era appena sparato nove buche con quell’afa, eppure era felice più di un bimbo. Forse perché aveva fatto par alla difficile sette. Max è arrivato in bicicletta. Pantaloncini corti e maglietta. Una bici da donna, non da fanatico. Come ne conosco tanti. Anche troppi. Il ristorante si chiama La Dinette, cioè della barca il posto dove si mangia. E ha i tavoli che a cascata si rovesciano sugli scogli. Noi ovviamente abbiamo scelto quello in punta. Di modo che la brezza che veniva dal mare ci soffiasse addosso: al Paron e a me in faccia, a Max sulla nuca senza capelli. “Ci facciamo uno spaghetto con la bottarga?”. Vada per lo spago. Ma prima un’insalata di gamberetti di laguna: strepitosa. Una volta la spiaggia della Costa Azzurra di Grado era libera. Adesso è un porticciolo naturale. Molto ben curato e soprattutto ventoso: gradevolissimo. Ma dov’è il segreto? Già, me ne stavo quasi dimenticando andando dietro al scintillio delle acque baciate dal sole e ai ricordi che vanno e vengono. Come le onde del mare un po’ increspato. Ma non vi tengo oltre sulle spine: in verità pensavo d’aver perso il block notes nel quale mi ero appuntato l’intervista a Chef Menetti e non osavo dirglielo. Mentre Tonino se n’era andato a passeggiare sul molo cercando magari la vecchia barca a vela dei suoi sogni. Il blocco degli appunti l’avevo invece smarrito in fondo ad un cassetto della scrivania nel quale tengo la posta che non apro mai. Avendo il terrore delle multe e dei conti in banca. Come ci fosse lì finito è ancora un mistero, ma adesso che l’ho ritrovato sono più felice di Tonino quando infila la pallina in buca e non ci voglio più pensare. Sarebbe stato del resto un incubo scavare nella mia scassata memoria a distanza di tre mesi o, peggio, chiedere a Max il bis della sua storia di reggiano doc, seppur nato a Palmanova nel gennaio del ’73, figlio di Lidia, friulana di Cervignano, e di Ermanno, pure lui dipendente statale, con una grande attrazione per l’equitazione. Molto più che per la pallacanestro. “Difatti quando mi gridano “datti all’ippica” rispondo disinvolto: okay, sono pronto, sin da quand’ero piccolo”. Ma prima d’andare a rileggere i miei scarabocchi, devo ancora rivelare il terzo e ultimo segreto tra noi due. Sorseggiando il caffè doppio (in tazza grande) gli chiesi infatti a bruciapelo: ma adesso dimmi: quale giocatore vorresti che Dalla Salda e Frosini ti comprassero al mercato?”. E lui, senza rifletterci un secondo: “Pietro Aradori: sa fare bene tutto, ma resterà un sogno”. Perché? “Pietro vuole tornare in Spagna. E poi credo che costi abbastanza”. Un’ottima scelta, l’applaudì il Paron. E già che ci sei – gli consigliò – fatti prendere anche Stefano Gentile al posto di Cinciarini che andrà a Milano: non è vero? “Penso proprio di sì”. Ecco di Max mi piacciono tante cose: la spontaneità e il coraggio, l’ottimismo e l’allegria, ma soprattutto il non dire mai “questo non lo scrivere”. Devi fidarti del giornalista che hai di fronte, e della sua onestà, altrimenti lascia perdere. Aradori e Gentile sono comunque arrivati alla Grissin Bon. E il Cincia è voluto volare tra le braccia di Gelsomino Repesa. Lasciando al tempo di stabilire chi dei due ci ha guadagnato nello scambio, avrei anche un’idea a proposito, ma la tengo per me, piuttosto mi fiondo tra gli appunti e li leggo assieme a voi. Come vengono vengono. Cominciando dalla moglie Maria Pia che è argentina e nazionale di pallavolo, che ha giocato da Fano a Reggio Emilia, dove Max l’ha conosciuta che aveva 25 anni ed “era la fidanzata del fratello di una mia giocatrice”. Dio mio. Tifosissimo della Juve. Come me: ecco un’altra delle ragioni del nostro feeling. Ha la maglia di Tevez “che mi ha regalato Alessandro (Dalla Salda)” e non prende le distanze dal calcio. Anzi, quando può va ospite di Alessandro Bonan a Sky e dice di divertirsi da matti eccezionalmente a non parlare di basket. Così come non sentirete mai il sottoscritto disquisire di pick and roll o di pick and pop: piuttosto vi racconto tutto sui popcorn di Iowa o sulla festa dei maroni di Combai, tra le colline del Prosecco, in provincia di Treviso, da oggi all’1 novembre. Così come non gli domanderò mai: chi vince lo scudetto? Mi risponderebbe “per forza Milano”: è scontato. Anche se l’ha già battuta nella finale di SuperCoppa. Piuttosto è bello che dica con orgoglio: “Noi abbiamo iniziato il campionato in maglia rosa” e sia sereno oggi come la primavera scorsa quando dicevano che Sacripanti avrebbe preso il suo posto sulla panchina di Reggio Emilia o quel mezzogiorno a Grado. Cioè solo una settimana dopo aver perso con il Banco di Sardegna la settima e ultima partita di finale dei playoff. Ovvero quando mi confessò che, ripensandoci, “avrei dovuto inventarmi qualcosa d’illogico quando in gara sei di Sassari, a 50 secondi dal termine del duello per il titolo, noi cinque punti avanti, ho avvertito che sul parquet stava per succedere qualcosa d’incredibile con la palla in mano di Logan che segnò dall’inferno, e di tabella, un canestro da tre che non stava né in cielo né in terra”. In casa di Maria Pia sono tutti pallavolisti. E pure di successo. Mentre già suo nonno Umberto aveva a che fare con il cavalli ed il salto ad ostacoli: lavorava difatti all’Istituto incremento ippico di Reggio. E suo padre è giudice federale. Così che la piccola Alessia ha già il futuro sportivo segnato: o oltre una rete del volley o in groppa a Glamour Van de Kappel, una puledra scelta da mio padre che ho comprato con un amico in Belgio. Dicono che sei permaloso. “E’ vero: lo divento quando gli altri danno per scontato che faccia una cosa che magari anche condivido”. E pure superstizioso. “Da morire”. Infatti stava andando a comprare il pesce quando gli ho telefonato ieri per rinfrescare le nostre quattro chiacchiere un po’ ingiallite dal tempo e dall’autunno che intanto è arrivato assieme alle castagne e alle prime vittorie della sua Grissin Bon in campionato e a quella su Brindisi in EuroCup. “Lo faccio per scaramanzia ogni volta in cui il giorno dopo gioco in casa”. Stasera dunque cappe sante gratinate con prezzemolo, pan grattato e aglio. “Come piacciono a mia moglie”. Orata al forno e gamberi saltati al curry. E ovviamente cucini tu. “Sì, dopo l’allenamento”. C’è poi la storia di Micio Mimmo che è uno spettacolo. E che va raccontata per filo e per segno. “Devi sapere che noi tutte le settimane, o quasi, andiamo a cenare con la squadra in una trattoria della Bassa reggiana a Cognento di Campagnola Emilia. Una sera del 2010, uscendo a mezzanotte dal locale, feci notare a Bicio Frates, che era il capo allenatore che avrei di lì a poco sostituito, che anche la volta prima avevamo incrociato quel gatto bianco del trattore e avevamo poi vinto la partita. Difatti un paio di giorni dopo di nuovo giocammo e ci salvammo. Da allora Micio Mimmo divenne il nostro portafortuna. Tanto che l’anno successivo, alla vigilia del match per la promozione in serie A con Imola, cercammo per tutta la notte Micio Mimmo che si era perso per le campagne. Con le lampade e le torce. Invano. Sin quasi all’alba. Quando, rassegnati, ci sparammo una spaghettata all’olio, aglio e peperoncino e ci convincemmo che il gatto non si fosse fatto vivo perché era molto più tranquillo di noi che avremmo vinto l’incontro e saremmo stati promossi. Come poi inevitabilmente accadde”. Ora l’avrete capito: la scaramanzia di Max è un modo gentile e scaltro per stare vicino alla squadra e per coccolare, nel poco tempo libero, la famiglia. Non è invece un segreto che Max sia uno Chef con la ci maiuscola: il mio Max Chef Menetti. “Mia mamma mi ricorda sempre che da piccolo non giocavo a pallacanestro, anche perché ero abbastanza scarso, ma con le pentole e i cucchiai”. Del resto ha preso il diploma di chef alla scuola alberghiera di Salsomaggiore. “Ma non mi andava di stare tutto il giorno chiuso in cucina”. E così è diventato allenatore. Il migliore per me l’anno prossimo in serie A: io l’ho già eletto. Anche se la stagione è appena all’inizio e magari, senza far polemica, i suoi colleghi voteranno un altro. Il buon giorno si vede dal mattino. Questo insegnano i saggi. O di nuovo mi sbaglio?