Mistero Gerasimenko: l’ultimo pasticcio sotto canestro

jajuan

Si può vincere una partita in due contro tutti? Anche no. Ma in due e mezzo magari anche sì. Se i due sono Melvin Ejim e Michael Bramos. Con MarQuez Haynes a mezzo servizio. Soprattutto se gli avversari da battere sono finlandesi, Ranniko è ormai arrivato al capolinea e la smettiamo di chiamarla Champions League. Perché altrimenti facciamo ridere i polli. Anzi, i galletti. Visto che quello che ho mangiato l’altra sera a cena, nel dopo Umana-Kataja, ai ferri con salsa piccante e patatine fritte, non era nemmeno male, ma mi è rimasto qui sullo stomaco e mi ha tenuto sveglio tutta la notte. Tanto che erano ormai le tre quando ho finito di vedermi in registrata il derby di campionato tra Cantù e Milano e non mi è ancora bastato per prendere sonno. Tranquilli, non vi parlo adesso dell’Armani. Di cui ne abbiamo tutti le spaziature piene. Che sono il chiodo fisso di So-na-lagna Soragna. E neanche di Cirillo Bolshakov che è l’allenatore di Dmitrij Gerasimenko. Buono quello. Che non si sa bene dove si sia nascosto. Condannato in contumacia dalla Corte distrettuale di Mosca per un’appropriazione indebita di oltre 57 milioni di dollari, l’avevano arrestato a Cipro, ma ha pagato la cauzione, gli hanno restituito il passaporto e ora sarebbe libero di lasciare l’isola del Mediterraneo più piccola solamente della Sicilia e della Sardegna. Però non ne sarei poi così sicuro. E non del fatto che la Sardegna e la Sicilia siano più grandi di Cipro: avevo 8 in geografia (e 4 in italiano) alle medie e, se ancora non vi fidate, nessuno vi vieta di prendere un metro e d’andarvele a misurare. Non sono invece certo che Gerasimenko sia rientrato a Lugano. Dove risiede con la famiglia. E meno che meno in Russia o in Ucraina. Dove potrebbero anche trattenerlo. E buttar via la chiave. Fatto sta che martedì al palasport di Desio c’era solo la moglie Irina. La quale è la presidentessa coraggiosa della Red October. Che per una sera si è chiamata Forst e per le ultime undici partite si chiamerà Mia. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Intanto la Gazzetta ha eletto Jaj Jaj Johnson mvp del girone d’andata e a Cantù ha dato sei in pagella. E così ora ne capisco ancora meno. Perché l’ex meteora dei Boston Celtics volerà anche come una libellula impazzita, però non può essere vero – come narra Mamma Rosa – che piace da matti a Georgios Bartzokas, il buon coach greco del Barcellona che ha più volte confessato di non sapersene cosa fare di un saltimbanco da circo equestre che vola un metro sopra al canestro se poi è una pasta frolla in difesa e non ha voglia d’allenarsi. Come del resto i compagni di merende che hanno segato la panchina a Rimas Kurtinaitis soltanto perché giustamente faceva sgobbare quei somari. Capaci di passare alla storia per la sconfitta più umiliante di tutta la gloriosa serie A di Cantù: -43 (96-53) a Capo d’Orlando e non al TD Garden del Massachusetts. Era il 30 ottobre, poco più di due mesi fa: me lo ricordo bene. E quel giorno l’mvp della Gazzetta segnò la miseria di 2 punti, catturò mezzo pero che gli stava cadendo sulla zucca e soprattutto giocò contro il povero allenatore lituano. Evidentemente Mamma Rosa, invecchiando, ha oggi la memoria più corta di qualche rincoglionito e inamovibile direttore della Rai. E comunque come si fa a promuovere una squadra che ha vinto sei volte su quindici e nella quale ognuno gioca per i cavoli suoi? In primis JaJuan Johnson? No, assolutamente non si può. A meno che non vi beviate la storia che la pallacanestro che insegna il mancato matematico ucraino Cirillo Bolshakov funziona perché non utilizza più di un paio di schemi e semplifica notevolmente il gioco. Come sostiene la Gazzetta. Che però non si deve lamentare se avrà poi sulla coscienza i suicidi in massa di Ciccioblack Tranquillo e della sua Banda Osiris. Oltre che l’eliminazione totale delle lavagne e delle lavagnette di Sky. Tanto più che Cantù, e non ditemi che mi sbaglio, è forse il club di serie A che, se anche non avesse gli italiani, sarebbe la stessa identica cosa. Difatti l’italiano che gioca più di tutti si chiama Craig Callahan, è nato a Maquoketa (Iowa) e di nostro ha solo il passaporto. In compenso non sa una parola della lingua di Dante come del resto Jeff Viggiano che è da dieci anni nel Belpaese e ha imparato al massimo a dire buongiorno e buonasera. E gli altri sono Marco Laganà e Francesco Quaglia che di solito scaldano la panchina trentanove minuti e mezzo su quaranta. Per non parlare di Salvatore Parrillo che penseresti venga dal Sud America ed invece è di Benevento, l’ex Malenvetum dei sanniti.