Oggi. E perché non ieri? O domani? Perché stanotte mi sono sognato di lui, ho aperto il cassetto dei ricordi e ho trovato questo amarcord che avevo nel cuore e che non avevo mai gelosamente dato alle stampe. Dedicato al più grande dirigente della storia della nostra pallacanestro. Senza eguali. Lo diceva anche il Principe Rubini.
L’ultimo ricordo che ho di Gigi Porelli è il taxi che s’allontana con lui a bordo. A passo d’uomo. Andando incontro alle due Torri. Quella della Garisenda e quella degli Asinelli. Nella sua Bologna dotta, grassa e (un tempo) rossa. “Chissà se ci rivedremo ancora?” mi venne da pensare mentre Berna 8 spariva in fondo alla strada. Forse no. E lo salutai con gli occhi che forse piangevano. L’avevo visto provato. Questo sì. Ma non stanco. Gli piaceva troppo la vita per permettersi d’essere stanco anche solo mezzo secondo. Lui che poteva permettersi tutto e molto si era sempre concesso. Però già stava male. E lo sapeva benissimo. Più della Paola. Che lo chiamava Porelli e mai Gigi. Specie quando lo sgridava. Dolcemente. Scuotendo la testa. Pure lei divertita e compiaciuta. La Paola gli perdonava tutto come solo le grandi donne riescono a fare con l’uomo che amano e del quale hanno una stima infinita: chiudono un occhio e soffrono, se soffrono, in silenzio. Lasciando che gli altri dicano e la pensino come vogliono. Giusto quest’estate ho letto per caso una bella intervista su Repubblica a Silvia Giacomoni che ha passato cinquant’anni accanto a Giorgio Bocca. “Rivendico il diritto d’essere infelice perché ho perso un marito molto amato e molto rompiballe”. Anche Silvia chiamava e ancora chiama il grande giornalista per cognome, ma non è tanto per questo motivo che ora mi viene da accostare Bocca a Porelli. E non credo che all’Avvocato comunque sarebbe dispiaciuto. “Il Bocca vestiva malissimo”. Come del resto Porelli. “Quella del ruvido era solo una maschera. Piuttosto era una tempesta sentimentale con la quale non è mai riuscito a fare i conti”. Proprio come l’Avvocato. “Il Bocca granitico era anche gelosissimo. Come un Otello e come tutti i tombeur de femmes”. La differenza è che la Paola non riuscì a sopportare la perdita di quell’uomo così raro: forte e intelligente, ma anche fragile. E se ne è andata pochi giorni dopo di lui. Quasi la vita non avesse per lei più alcun senso. Porelli ci aveva convocato a pranzo da Rodrigo, il ristorante di via della Zecca che gli era più caro dopo il Diana, un’altra delle sue fisse. Come San Luca e il portico più lungo della terra che lega Bologna al santuario sul colle della Guardia. Non ricordo se fosse già estate. L’estate del 2009. So che faceva già molto caldo. Non ci confessò che stava morendo. Non perché avesse paura, ma perché non poteva sopportare d’essere noioso. Essendo una persona che era sempre un piacere ascoltare. Spesso la gamba gli tremava. Irrequieta. E diceva: “Questa non passa”. E così era. L’Avvocatone, come lo chiamavano affettuosamente Renato Villalta e Mario Martini, i figli che non aveva potuto avere da Paola, non era tipo da fare sconti a nessuno. Ma era pure di una generosità unica. Quando chiamava, noi si correva: Oscar, Lorenzo e io. Fosse stato anche Natale o Pasqua. A Cannes. Ospiti nel Grand Hotel sulla Croisette in faccia a Saint-Honorat, l’isola dei monaci trappisti che lui chiamava fraticelli. Dove ci portava a gustare l’aragosta con le cipolle. Mezz’ora, nemmeno, in barca. Il sole negli occhi. Una meraviglia. E il giorno dopo a pranzo in quel ristorantino sulla spiaggia “dove fanno la miglior bouillabaisse del mondo”: diceva e non si poteva dargli torto, ma aveva ragione. Oscar Eleni era il suo giornalista preferito. Eppure Oscar sino all’ultimo non riuscì mai a dargli del tu. Con me e Lorenzo Sani aveva invece più confidenza ed arrivava persino a mostrare l’altra faccia di un carattere magari difficile, a volte scorbutico con chi gli andava di traverso, ma anche scanzonato come il ragazzo con la racchetta da tennis che veniva da Mantova per studiare legge e non riuscì più a staccarsi da Bologna. E dalla Virtus. Innamorato perso dell’una e dell’altra. Mettere in fila tutte le passioni di Porelli, che non conosceva le vie di mezzo, è tanto difficile quanto per me adesso pescare nel mare dei ricordi che ho di lui. Che è stato il più grande tra i nostri dirigenti di pallacanestro. Una spanna sopra tutti. Tre passi avanti a tutti. E difatti mi manca moltissimo. Come il Principe Rubini e il Barone Sales. Ai quali pure sarò eternamente affezionato. La prima volta che intervistai l’Avvocato fu nel suo studio legale per la verità un po’ austero e cupo. Lui e io. Più di trentacinque anni fa. E solo la scrivania in legno nero tra noi. Ero imbarazzatissimo. Lo confesso, ma avrei voluto vedere voi al posto mio: capivo che mi stava studiando e ci tenevo a passare l’esame. Mi ero preparato le domande. Alle quali a tutte rispose. Severo e puntuale. Senza mai dire: però questa non la scrivere. Probabilmente perché non aveva proprio niente da nascondere. E comunque, se non mi avesse mostrato il ritratto di Paola sulla scrivania, sarebbe stata molto dura rompere il ghiaccio. “E’ mia moglie a diciott’anni”, mi confessò fissandomi. “Quando vinse Miss Italia. Era poco bella?”. Posso correggerla, avvocato?, ardii chiedergli. “Fai pure”. Io piuttosto direi bellissima. E lo feci felice. Potrei anche raccontare di quella volta nella quale Tonino Zorzi s’infilò di notte nella stanza matrimoniale dove stava riposando la Paola e staccò dalla parete il quadro di un pittore riminese al quale Porelli teneva moltissimo. “Non vorrai mica far prendere paura a mia moglie?” aveva cercato di dissuaderlo l’Avvocato, ma il Paron aveva vinto con lui la scommessa, predicendogli la conquista del primo scudetto targato Sinudyne, quello del ’76, e non volle sentir storie: “Faccio piano”. E si prese il quadro senza svegliare la Paola che continuò a dormire. O di quell’altra in cui, proprio da Rodrigo, e quella fu l’ultima volta che pranzai con l’Avvocato, si avvicinò al nostro tavolo Giorgio Guzzaloca che voleva ricandidarsi sindaco di Bologna e propose a Porelli di finanziargli la campagna elettorale. “Ci sto, ma non hai chances. E, se non vinci, come penso, mi restituisci il doppio dei soldi che dovrei darti”. E non gli diede. Al ballottaggio andarono infatti Delbono e Cazzola. Guzzaloca al primo turno fu solo terzo. L’Avvocato conosceva i bolognesi come le sue tasche. E non ricordo che abbia mai perso una causa. Se non con Alì Babà Celada. Ma questa magari ve la racconto al prossimo Memorial Gigi e Paola Porelli.