Olio aglio e peperoncino con Claudio Coldebella

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Non mi sono bevuto il cervello. Oggi è Pasqua. E domani Pasquetta. Anche se stasera in Corso Italia a Cortina c’era più gente che a Natale. E ieri è pure nevicato zucchero sui prati. E’ che ho deciso di (ri)proporvi le interviste che ho scritto mensilmente per SuperBasket. Cominciando da Claudio Coldebella. Quand’era ormai Natale.
Le storie del basket le posso scrivere anch’io. Senza scomodare l’avvocato Buffa in giro per le Indie o la Gran Bretagna. E senza turbare la vita tranquilla dell’onorevole direttore Dan Peterson. Ovviamente a modo mio. Con un cicinin di olio aglio e peperoncino. Altrimenti che gusto ci sarebbe? A pranzo o a cena. Cominciando da Claudio Coldebella che ha una storia ovviamente molto carina da raccontare. Come il suo gentile cognome. A mezzogiorno o poco dopo. Sotto Natale. Tra un piatto e un altro, una pasta e un dolce, mentre già rintoccano le due. Alle porte di Treviso sulla strada tutta curve (e graziose villette) che s’accompagna al Sile e porta al Braci e Abbracci. Una trattoria dal nome pure simpatico e la cucina semplice e curiosa. Covo della pallacanestro che non è più benettoniana, ma forse anche meglio. E qui schiaccio il piede sul freno e mi mordo una prima volta la lingua. L’ho promesso: non voglio creare alcun problema a Dindodan. E di solito le promesse le mantengo. Anche se non nego che mi piace sempre da matti affondare le dita nella marmellata che la Tigre ha nascosto nella credenza. Là, in alto, a sinistra. In fondo sono come Giancarlo Giannini e il titolo del suo libro autobiografico: Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi). Parto da lontano e ricordo che il caro Alì Babà Celada entrò tronfio nel palasport di Udine. Claudio Coldebella non aveva ancora diciott’anni ed era un pugno d’ossa, ma di buona stoffa e carattere, un ciuffio ribelle e coraggio da vendere. Come del resto Riccardo Pittis, che chiamai subito Acciughino proprio per la sua straordinaria magrezza: era pure lui del ’68, l’anno della contestazione studentesca in Italia e del mio primo anno di medicina a Padova, delle rivolte razziali negli States e delle lezioni all’Università di Scienze politiche del cattivo maestro, Toni Negri, molto vicino alle Brigate rosse. Storie incrociate. Sul parquet un’accesa partita delle finali juniores: Coldebella contro Pittis. Vinse Milano, se non ricordo male, ma il ragazzo di Castello, come a Venezia chiamano quelli di Castelfranco Veneto, ne sparò 27 di punti in faccia ad Acciughino. “Questo lo ricordo molto bene”, racconta sorseggiando un po’ di Rabosello e mostrando di gradirlo. Lui che era astemio prima di tornare dalle sue parti. Ora dirigente modello in abito nero e cravatta, le spalle sempre strette e il ciuffo ancora sbarazzino. E prima di fondare tre anni fa proprio con Pittis e Vazzoler il consorzio della rinascita della pallacanestro a Treviso. “Ma qui se non bevi un goccio di buon vino, ti guardano storto e non puoi più vivere”. Parole sante. “E così – confessa – ho fatto un corso accelerato di sommelier sino al secondo livello”. Questa, lo giuro, non la sapevo. Storie nostre. Ma non divaghiamo.
Con Coldebella nel Basket Mestre giocava un altro Claudio del ’68 che non era molto più lungo di lui. Anzi, erano proprio alti uguali: un metro e 98 entrambi, ma Pilutti sembrava al confronto un armadio: aveva difatti già esordito in serie A e al debutto contro Rieti aveva impunemente schiacciato in testa a Joe Bryant, il padre del meraviglioso Black Mamba, senza spezzarsi in due. Quanto a Pittis, tanto per capirsi, la primavera dopo avrebbe vinto da protagonista la Coppa dei Campioni a Losanna, la prima di Dan Peterson, Bob McAdoo e Michelino D’Antoni. Storie vecchie che sembrano oggi di un altro pianeta. All’epoca Pieraldo Celada non se la passava troppo bene. Ma i tempi delle vacche magre, quelli del pollo arrosto acquistato in rosticceria e la cena consumata in sede con gli allenatori senza stipendio da mesi, stavano per finire. O almeno questo mi garantiva il presidente della Pepper, seduto accanto a me nella scomoda tribuna di Udine, mentre si mangiava con gli occhi i due suoi ragazzi e si gonfiava come un cappone. “Per Pilutti la base d’asta è mezzo miliardo di lire”, mi diceva. “Lo vuole Trieste, ma non è la sola”. E difatti un anno dopo lo avrebbe ceduto a Bepi Stefanel per una cifra intorno ai 700 milioni. Che all’epoca erano dei gran bei soldini non solo per Alì Babà. “Ma non è finita qui. Lo vedi quel playmaker che sta facendo vedere i sorci verdi al tuo Acciughino?”, mi chiese indicandomi Coldebella. “Quello lo vendo almeno per il doppio” e scommettemmo una cena di pesce al Canal da Gianni sulla darsena di San Giuliano, l’ultima frontiera prima della laguna di Venezia, un’altra isola che non c’è dove si poteva parlare di pallacanestro anche oltre le tre di notte. Ovviamente persi la scommessa, ma lui non si fece mai da me pagare la cena. Perché, quando aveva tre lire in tasca, era uno degli uomini più generosi di questo mondo. “E più intelligenti e furbi”, mi conferma Claudio chiamandolo anche lui Alì Babà. E comunque, dopo esserselo portato a Desio, Celada lo cedette alla Virtus Bologna nell’estate del 1989.
Quando Ettore Messina prese il posto di Bob Hill in qualità di primo allenatore delle Vu nere e insieme a Coldebella subito vinsero la Coppa Italia a Forlì e la Coppa delle Coppe a Firenze. Con Micheal Ray Richardson. E poi nel ’93 il primo scudetto. In quella squadra sponsorizzata dalla Knorr di cui Alfredo Alfredo Cazzola era il presidente e Predag Danilovic la super stella tra tante altre. Da Brunamonti a Wennigton. “Non dimenticando – aggiunge svelto – Morandotti, Moretti, Carera e Binelli”. Mi sono riperso tra i vicoli dei ricordi e dei miracoli, tra storie che più non si ripeteranno e che mi fanno sentire un sacco vecchio. Quasi un brontosauro. Ma torno a monte per raccontare quello che non vi ho ancora detto. E cioè che Celada non soltanto vendette Coldebella per un prezzo quasi triplo di quello che aveva preso dalla cessione di Pilutti. “Due miliardi di lire tondi tondi”. Ma che riuscì a cederlo contemporaneamente a due società: oltre a Bologna infatti anche a Verona. “Però io ho firmato solo il passaggio alla Virtus e di Verona non sapevo niente”. Non ho motivo di non credergli. Tanto più che se oggi Claudio è un volpino, trent’anni fa non era certo uno stupido. Anzi. Sempre ben consigliato dal fratello Fabio, che vagamente gli somiglia, e soprattutto da mamma Lucia, una donna che mi sembra di ricordare molto energica. “E neanche qui ti sbagli. Se devi finire di giocare, un giorno mi disse, non vogio vedar che ti te arrabatti”. Ovvero se non giochi, basta: non ti voglio vedere che salti da una panchina ad un’altra, magari di serie inferiore, tanto per sbarcare il lunario o solo per racimolare gli ultimi spiccioli. E difatti lasciò nel 2006. Un anno dopo aver perso con Milano, ancora da protagonista, la finale dei playoff contro la Fortitudo di Repesa e la possibilità di vincere il suo quarto scudetto, dopo i tre di fila conquistati con la Virtus, le sei epiche stagioni in Grecia, quattro all’Aek di Atene e due con il Paok Salonicco, anche un’Eurolega in bacheca. A 38 anni, l’età giusta per smettere e accettare di fare il vice allenatore di Sasha Djordjevic. “Un amico”. E poi di Attilio Caja. “Un altro grande”. Sempre attorniato da belle donne del mondo dello spettacolo e della moda. Una storia a flash. Il matrimonio con la deliziosa e generosa attrice Hristina Pappa. Un figlio Dimitris che vive con la madre. Il divorzio dalla biondissima greca.
E una brutta storia con George McCloud. “La peggiore della mia vita”. Negli spogliatoi di Pesaro all’intervallo della seconda partita di finale del ’94 con la Scavolini. “Le ho sempre date e prese come quella volta nel primo tempo con McCloud”. Che aveva la pelle nera. “Continuammo a bisticciare anche all’uscita dal campo. Le solite cose. Poi lui mi mollò un tremendo cazzotto al viso. Mi risvegliai mezzora dopo in ospedale. Dissero che lo avevo insultato dandogli dello sporco negro. Niente di più falso: non sono mai stato razzista. Anzi. Ho avuto più d’una compagna di colore. Querelai il giornale di Roma che mi aveva diffamato. Difatti vinsi la causa ed ebbi 30 milioni di risarcimento che ho girato in beneficienza”. Gli credo. Non fosse altro per il fervore con il quale si difende ancora. A distanza di vent’anni. Storie tese. Siamo al caffè. E alle confessioni. “Non era il mio obiettivo quello di fare l’allenatore. Ma il manager. Me l’ha ricordato la settimana scorsa proprio Djordjevic. Io me ne ero già dimenticato. Sasha all’inizio della mia ultima stagione a Milano aveva distribuito un foglietto sul quale ognuno della squadra, giocatori e tecnici, avrebbero scritto il loro futuro e le loro ambizioni. Io scrissi: “Adesso alleno, però poi voglio fare il dirigente ad alto livello”. E così ci ho provato dopo un anno sabatico. Nel quale sono stato in Africa, Stati Uniti e Asia. Ho fatto un corso alla Bocconi. Ho studiato e ho lavorato per l’Adecco. E ho capito che questa è oggi la mia vera passione nella pallacanestro”.
Facciamo un gioco. Primo indizio: a Caserta l’ha spedito Virginio Bernardi e Claudio ci è andato di corsa. Senza voltarsi indietro. Come general manager. Era l’estate del 2009. E a fine campionato la Pepsi Caserta è sorprendentemente seconda in regular season e terza al termine dei playoff, eliminata 3-2 alla quinta partita di semifinale dall’Armani. Una storia che sembra vecchia di cent’anni, ma non ha neanche un lustro. Indizio numero 2: Andrea Trinchieri è senza squadra, Coldebella lo raccomanda ai ciclopi greci e Gas Gas diventa cittì della nazionale ellenica. Con risultati disastrosi, ma questo è un altro paio di maniche. Terzo indizio: Claudio è tifosissimo del Milan. Ed infatti mi mostra, estraendola dal portafoglio, la carta di credito rossonera. Di solito tre indizi fanno una prova. “E’ vero”. E allora, gli domando, fingendomi serio: come posso cancellarti dalla confraternita dell’Osiris, che è una mia invenzione, se non puoi smentire nessuna delle tre storie che ti ho appena raccontato e nelle quali sei particolarmente coinvolto? Ride di gusto: “No, onestamente non puoi”. E’ stato solo un gioco e il direttore di Gold, Silver, serie B e C (sino a giugno 2016) lo ha preso come tale. Non è uno stupido, ve l’avevo detto. Semmai fiero e orgoglioso è il nostro guerriero di Castello. Assieme al quale brindo volentieri. Al nostro basket e alla pallacanestro a Treviso. Aprendo il panettone di Natale.     (1 continua)