Il boyscout di Capo d’Orlando più giovane di Matteo Renzi

boys

Quando scherzo, mi prendete terribilmente sul serio. Anche troppo. Se invece non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di buttarla in ridere o, peggio, in vacca, non mi date bada e magari pure vi diverto. Faccio insomma un mare di fatica a farmi capire. Proviamo allora a cominciare a intenderci. Che sarebbe sempre tempo e ora: rima scontata. Prendendo per esempio il mio sproloquio dell’altro ieri. Ho scritto che due piccioncini, facendo l’amore sul tetto di casa, si sono così tanto agitati che hanno spostato la parabola impedendomi di vedere le partite che avevo provveduto a registrare sul fedelissimo My Sky. Ebbene non è vero che mi sono perso Orlandina-Avellino e nemmeno Milano-Reggio Emilia per problemi di connessione al satellite. Semplicemente mi andava di cazzeggiare pensando ai due colombini di Sky Basket che però adesso non mi potete anche chiedere chi sono. Provate ad indovinarlo voi. Che di certo non vi manca la fantasia. Mentre intanto io li guardo che tubano, mano nella mano sotto al tavolo, e mi fanno un misto d’invidia e di tenerezza. Ero al contrario incredibilmente sincero quando vi ho raccontato che ho da un pezzo deciso quali sono i miei preferiti di quest’anno tra gli allenatori e i dirigenti di serie A. Ho scelto tra gli allenatori De Raffaele, Esposito e Caja. E tra i dirigenti Dalla Salda, Casarin e Trainotti. Del resto non è un mistero di non aver segreti: tutti sanno come la penso e quali sono i miei gusti nel basket. Spassionati o sbagliati che siano: non m’importa. Né è importante che l’mvp della stagione sia Ray-ban o il Bonsai di Caserta. Entrambi hanno fatto il massimo che potevano fare con Venezia e Pistoia sulla base di quel che il convento aveva messo a loro disposizione. Piuttosto mi diverte ricordare che quando ho titolato “Un calcio ai pregiudizi: l’allenatore del 2017 è Esposito” era metà febbraio e molti mi hanno preso per matto. Altri mi hanno accusato d’essere il solito disfattista e provocatore. Mentre tutti indicavano in Di Carlo il nuovo profeta della pallacanestro italiana e la Banda Osiris lo invitava nel suo salotto sgualcito facendolo passare per un fenomeno. Tanto che lui c’aveva quasi quasi anche creduto. Ora non ho proprio niente, lo giuro, e sono serio, con il Patatina o il Patata San o Di Carlo. Però mi sembravate voi gli esagerati e comunque da quel giorno Capo d’Orlando non ha più vinto una partita. O quasi. Come sta succedendo al Tenerife, l’avversaria della Reyer stasera nella semifinale di Champions, che due mesi fa era in testa al campionato spagnolo e adesso deve difendere il quinto posto da Gran Canaria e Unicaja che gli soffiano sul collo. E ora non ditemi che porto scalogna. Io no, semmai Mamma Rosa che si era follemente innamorata degli slavi siciliani e del mago Gennaro (da Santa Maria Capua Vetere). Che non penso sia scarso. Ma credo che Artiglio sia molto più bravo di lui in assoluto e lo sia stato soprattutto in questo girone di ritorno. Quando ha ereditato da Paolo Moretti una mummia sfasciata e ne ha fatto una squadra rispettata in tutta Italia. Senza il minimo ritocco e senza che il Consorzio di Varese dovesse mai mettere mano al portafoglio. Meditate, gente, meditate. E poi vediamo se avrete ancora il coraggio di venirmi a dire che ho torto marcio. Così come non dovrete mostrarvi meravigliati quando la Lega di Egidio Bianchi annuncerà vobis il nome del miglior dirigente dell’anno in corso: Peppe Sindoni, figlio di Enzo, il patron dell’Orlandina appena querelato dalla Federazione di Giannino Petrucci per diffamazione aggravata e inibito per un (altro) mese. I miei tre preferiti hanno del resto già vinto una volta: Federico Casarin nel 2012, Alessandro Dalla Salda la stagione dopo e Salvatore Trainotti nel 2015. E quindi in qualche modo bisognava anche premiare Capo d’Orlando per il suo campionato che è stata comunque una favola. Facendo magari finta che Peppe Sindoni, 29 anni, sia un general manager e non, come credo piuttosto, uno scout. Anzi, un boy scout. Vista la sua giovane età. Come Matteo Renzi. O quasi.