Quasi quasi vorrei volare anch’io lassù dove sta il Pero

skansi

L’ultima volta che ci siamo sentiti è stato a Natale per scambiarci gli auguri. Aveva la voce stanca. Difatti al telefono rispondeva a pochi. Ed io avevo il grande privilegio d’essere tra questi. Aveva la voce molto affaticata, ma l’intelligenza sempre viva e brillante. Che t’incantava e ti convinceva. “Questo basket, in particolare quello che si gioca oggi da voi, non mi diverte più e difatti lo guardo in televisione se non ho proprio nient’altro di meglio da fare. E se ovviamente non lo commenta Ciccioblack come tu chiami Tranquillo”. E rideva divertito. Sapeva di stare molto male. Anche se con me non me ne ha mai fatto parola. E che non sarebbe arrivato a Pasqua. Come purtroppo è poi accaduto. Ormai già da quasi tre settimane, ma di lui scrivo solo oggi, e me ne scuso, perché pure io ero, e sono, molto arrabbiato con la nostra palla nel cestino e non solo con lei, ma anche con il resto del mondo, che è finita in mano a dirigenti incapaci e soprattutto prepotenti. In primis Ettore Messina che pure prima di volare a San Antonio, e ancora non capisco perché non se ne sia rimasto in Texas dove stava così tanto bene con la seconda moglie e il giovane figliolo, era anche un bravo tecnico di club solo molto ricchi. Mica scemo. E stanno sgonfiando la palla (nel cestino) unicamente per poter fare ciascuno i propri porci comodi. Come nella Varese di Toto Bulgheroni che ha perso da tempo la testa per Luis Scola. Al quale prima o poi dovrà anche passare un sostanzioso stipendio come fanno tutti gli innamorati col paraocchi. Dal momento che non ricordo un argentino che abbia mai scucito un peso per la causa dello sport in Italia. E non lo farà neanche El General, che come manager è una frana e che a Lissago si è comprato una lussuosa villa, che gli è costata l’occhio della testa, e ha messo in piedi con il Toto un centro di padel che fa troppo rumore. Dove vanno a giocare, ovviamente a sbaffo, pure Xavier Zanetti e Esteban Cambiasso. Ero, e sono, comunque così nauseato dal nostro basket, nel quale da oltre un mese gli allenatori saltano in aria come tappi di spumantino gasato d’infimo gusto, e Varese è soltanto uno dei cento armadi di cui posseggo la chiave per tirar fuori presto gli scheletri e far prendere anche a loro un po’ d’aria buona, da non volerne temporaneamente più parlare nel blog. Se non (forse) in un libro da lasciare a mia figlia Giorgia e ai posteri. Che non dovranno, credo, neanche aspettare molto. Ma a Petar Skansi (nella foto, ndr) non potevo non dare l’ultimo saluto.

Pero era un bell’uomo e veniva dal mare. Lo cantava Lucio Dalla e io, adesso, assieme a lui. E parlava un’altra lingua, però sapeva amare. Una sola donna, Damira, conosciuta sui banchi delle superiori. A Spalato. Dalla quale ha avuto due figli, Jana e Luka, che gli sono stati vicini sino alla fine. Nella casa di Lubiana o di Abbazia, in Istria, che spalanca le finestre sullo splendido golfo del Quarnaro. Non me lo confessò, Petar, che stava per morire. Preferì che lo capissi da solo. Perché non era da lui arrendersi. Mai. Neanche se alla fine del primo tempo la sua Jugoplastika era sotto di venti punti. A me basta vincere di uno, diceva spesso ai suoi giocatori. Come ha ricordato Dan Peterson nel suo puntuale e impeccabile coccodrillo. “Sia come giocatore che come coach, Skansi ha fatto una carriera straordinaria. E mi ha dato anche qualche grande lezione. Anzi, mi ha dato proprio due calci nei denti che non dimenticherò mai. La mia primissima esperienza in Europa fu con la Virtus in Coppa Coppe. Ebbene siamo stati eliminati dalla sua squadra di Spalato per quoziente canestri (-10). Noi con un solo Usa per libera scelta dell’avvocato Porelli, però loro in verità non avevano neppure un giocatore straniero. L’anno successivo, era il 1976, ci siamo incontrati di nuovo, stavolta in semifinale di Korac. Pensavo d’aver capito qualcosa di più della Jugoplastika. Infatti abbiamo sbancato Spalato nell’andata 74-83. Per di più il super playmaker di Pero, Rato Tvrdic, si era fratturato in quella partita il polso destro. Quindi tutto okay per il ritorno? Invece no. La Jugoplastika ci ha spaccato di nuovo la faccia: 91-78 ovvero + 12. Ed è andata in finale dove ha battuto pure Torino. Queste due lezioni mi sono servite. Soprattutto a capire che Pero Skansi era un grandissimo allenatore. Più bravo di me. Perché non si era disperato per il -9 in casa, né per l’infortunio del suo faro. Gli ho allora stretto la mano a fine partita chiedendogli: “Pero, come hai fatto?”. E lui: “Dan, ho solo detto alla mia squadra: “Voglio vincere questa partita anche per un solo punto”. Genio puro. Una decina d’anni dopo nella fase di qualificazione della Coppa dei Campioni contro l’Aris avevamo perso di 31 punti a Salonicco (lo confermo: c’ero anch’io). Prima del match di ritorno al Palatrussardi ho usato allora la lezione di Skansi. Dissi alla mia Milano: Voglio vincere questa partita di 32 punti. Cioè con un solo punto più di loro. E così fu: tolto lo stress, evitammo l’eliminazione con un favoloso +34”.

Che la Tracer di Dino Meneghin e Bob McAdoo, D’Antoni, Barlow e Premier, ma soprattutto di Dan Peterson proprio in quella edizione abbia poi conquistato la Coppa dei Campioni nelle final four di Gand a più vent’anni dal successo del Simmenthal di Cesare Rubini, è solo un particolare che aggiungo io per ricordarlo a quelli della Banda Osiris che erano appena nati e che, se fossero rimasti nella loro culla a continuare ad urlare come degli ossessi, nessuno li avrebbe di certo rimpianti. E invece, crescendo, sono riusciti a far fuori Dindondan da Sky con la calunnia. Che solo nel Barbiere di Siviglia può essere un venticello gentile. Mettendo cioè in giro la voce che Peterson fosse ormai completamente rincoglionito. In verità faceva solo ombra al capo supremo, Cicciobello Tranquillo futuro Ciccioblack, e morivano d’invidia perché Dan è tutt’oggi, a 86 anni, con la sua memoria di ferro mille volte più piacevole e interessante da leggere e da ascoltare di tutti loro messi insieme, poveri cani. Mentre il basket su Sky è intanto franato a livelli d’ascolto ridicoli sia per le partite della Nba che d’Eurolega o delle nazionali di Giannino Petrucci che è il primo a vergognarsene e per questo s’adopera a tenerli nascosti in uno di quei famosi armadi di scheletri di cui vi ho già parlato e di cui posseggo tutte le chiavi.

Anche l’immenso Boscia Tanjevic, di ritorno dal funerale di Skansi a Lubiana, mi ha confessato che pure lui, quando gli veniva un dubbio su quale strada prendere ad un bivio cestistico, telefonava a Pero per domandargli un consiglio. “Che quasi sempre, per non dire sempre, azzeccava”. Del resto Skansi è stato nel ’78 il successore del professor Aza Nikolic nella nazionale jugoslava e nel ’92 il cittì di quella croata che s’arrese soltanto nel secondo tempo della finale delle Olimpiadi di Barcellona al primo Dream Team di Michael Jordan e Magic Johnson, Larry Bird e Patrick Ewing, Charles Barkley e Scottie Pippen, Clyde Drexler e John Stockton. Senz’altro la squadra più forte di tutti i tempi e sicuramente impareggiabile. Eppure anche quella volta chi fu il top scorer della partitissima che è passata alla storia ancor prima d’essere giocata? Non Air Jordan che di punti ne mise insieme 22, ma Drazen Petrovic che se ne inventò un paio più di lui. Non mi credete? Fate a meno, ma seduto sulla tribuna-stampa di Badalona quell’8 agosto io c’ero. Non so voi.

Di sicuro Petrovic è stato tra tutti il giocatore che Skansi ha allenato quello che più lo ha affascinato. Ne sono sicuro. Più ancora di Toni Kukoc. Col quale ha pure vinto lo scudetto a Treviso. Lo chiamava Mozart ed in effetti Drazen, specie quando sbeffeggiava il Salieri di turno con la lingua che gli penzolava dall’angolo della bocca, come quella sera in cui a Zagabria fece diventar matto Mike D’Antoni, molto somigliava all’impertinente genio di Salisburgo nel film “Amadeus” che, se ve lo siete persi, dovete assolutamente andarlo a recuperare. Così come sono certo che adesso sono assieme lassù, sotto un canestro tra le nuvole, che se la raccontano, se la ridono e si divertono. Magari assieme agli indimenticabili Barone Sales e Brontolo Corsolini. Mentre qui sulla terra l’odio anche nel basket ha stravinto sull’amore e sbagli se pensi d’avere più di tre o quattro amici dei quali poterti fidare a occhi chiusi. Tanto che quasi quasi sarei anche tentato d’unirmi a loro molto presto: io porto il pallone e gioco con voi. Come succedeva alla mensa del villaggio olimpico di Barcellona dove il riso in bianco era sempre scotto, ma la compagnia stuzzicante e davvero squisita. Magari anche guardando in tivù l’Italia di Julio Velasco, campione del mondo, perdere nei quarti di finale con l’Olanda. Come vedi, commentò il Pero, nello sport mai nessun allenatore è perfetto. E comunque mi sarei anche stancato di combattere un tumore al sangue che ho cronico e del quale a lui non ho mai parlato sapendo che Petar, come mi aveva confermato Massimo Iacopini, che quest’inverno era andato a trovarlo a Lubiana assieme a Nino Pellacani, stava molto ma molto peggio di me e aveva le metastasi che ormai lo divoravano.

Piuttosto, mi disse a Natale, “vogliamo parlare di quel tiro a segno da tre punti che mi ha stufato quasi più del circo americano della Nba? Potresti infatti scrivere nel tuo blog che dovrebbero invece essere premiate con i tre punti le schiacciate. Sarebbe la giusta rivoluzione per questa pallacanestro che non s’accende neanche con un fiammifero antivento e così i miei ex colleghi finalmente tornerebbero a spremersi le meningi per inventarsi qualcosa di diverso dal pick and roll”. Un paradosso geniale come la musica di Mozart o l’idea di suo padre che, sul finire della seconda guerra mondiale, volle dare al figlio il suo stesso nome, Petar, prima d’imbarcare nel suo cargo il triplo dei profughi che poteva portare per un viaggio in mare che avrebbe anche potuto non avere un ritorno. Come ha scritto molto bene Walter Fuochi su Repubblica: “Petar Skansi era un gigante d’intelligenza fresca e pronta, sarcastico sino al dileggio, sicuro di sé sino all’arroganza, conversatore sommo, amabile od urticante nel giro di poche frasi”.

In effetti me ne parlava proprio la settimana scorsa a pranzo Frank Vitucci: “Non mi sono mai divertito così tanto come all’inizio della mia carriera quando, dopo il Paron Zorzi, fui il suo vice nella Reyer e Pero mi voleva sempre a tavola con lui, Praja Dalipagic e Ratko Radovanovic. A mezzogiorno e a cena”. Una meraviglia, non ne dubito. Un altro basket, poche storie. E pensare che tra noi due all’inizio non furono proprio rose e fiori. Anzi. Era uno dei mie bersagli preferiti della rubrica di satira, il Basket nel cestino, che tutti i martedì usciva sul Giorno. Skansi un lunedì mi chiamò in redazione e mi domandò a bruciapelo: “Cosa scriverai di me domani?”. Come al solito male, gli risposi scherzando. “E fai bene perché ieri abbiamo perso per colpa mia. Però sono anche sicuro di una cosa”. Cosa? “Che tu ce l’hai con me soltanto perché sono amico di Enrico Campana”. Fammici pensare: è assolutamente vero. E così, da allora, i nostri rapporti completamente cambiarono diventando soprattutto sinceri. Difatti non lo nego che fui contento il giorno in cui vinse lo scudetto nella finale contro la Scavolini nonostante Pesaro fosse allenata da un altro mio buon amico, Albertone Bucci. Il primo scudetto della Benetton. Di Toni Kukoc e Winny Del Negro, ma anche di Stefano Rusconi, Pellacani, Generali, Vianini, Mian e Massimo Iacopini, mvp dell’anno. Che era il 1992. Giusto trent’anni fa. Difatti il 9 maggio proprio il fedelissimo Iacopini presenterà a Treviso il libro che ha scritto insieme ad Alessandro Toso per festeggiare l’evento e ricordare Petar Skansi. Un fuoriclasse. Come giocatore e come allenatore, ma soprattutto come uomo. Davvero unico.