Le mie interviste: a cena con Paolo Vazzoler

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Dal numero di SuperBasket di aprile. Prima che Treviso, sponsorizzata De’ Longhi, uscisse a testa alta dai playoff Gold-Silver, eliminata alla bella dalla sorpresa della stagione, la Fortitudo Agrigento di Franco Ciani e David Dudzinski, un allenatore e un americano che vi raccomando.
Da dove comincio? Una bella domanda: già, da dove inizio? Il ventaglio di proposte che mi offre del resto quel gran novelliere di Paolo Vazzoler è multicolore. Oltre che imbarazzante. Più del Decamerone. Anche se non ha proprio nulla di boccaccesco. Cosa avevate capito? Anzi. E’ un racconto, o quasi, tutto casa palestra lavoro pallacanestro e famiglia. Potrei così proprio cominciare dalle sue gemelle, Camilla e Virginia. O Virginia e Camilla. E’ lo stesso. Che sono così diverse, non solo caratterialmente, da non sembrare nemmeno sorelle. O da quel posto nella tribuna d’onore del Palaverde sempre occupato dalla giacca di Paolo. “Chissà? Un giorno potrebbe sempre tornare e sedersi accanto a me: sarebbe ben accolto da tutti”. Ho capito di chi stai parlando: di Gilberto Benetton. O mi sbaglio? “No. Hanno l’abbonamento, lui e la cara Lalla, sua moglie, dall’inizio dell’anno: l’ho consegnato a entrambi personalmente”. E’ partito invece deciso Luciano che ci ha proposto come entree scampi crudi, che sembrano ancora vivi, carpaccio di tonno e san piero marinato, davvero eccellente. Poi una granseola, due cappe sante e dei canestrelli ai ferri. Apro e chiudo parentesi: come si mangia oggi il pesciolino di laguna (e di Chioggia) al Baretto di Albignasego, alle porte di Padova, non ci sono molti altri posti nel Veneto. Ve lo garantisce uno che magari di basket ne capisce poco, ma che viene dalla scuola di Nico e sono diventato il suo allievo preferito. Chi sia Nico lo sanno solo i miei amici e non lo dico a altri. Insomma di pesciolino me ne intendo. E può confermarvelo Nico, ma pure Paolo. Che è un ragazzo che trasmette entusiasmo e ottimismo a piene mani. E a tutto tondo. Sì, va bene, però adesso sono al punto di partenza e mi ridomando: da dove comincio? Dai trevigiani che chissà perché non si chiamano trevisani? Prima o poi dovranno spiegarmi anche questo. O dai trevigiani che si credono tutti simpatici mentre lo sono due o tre al massimo ogni mille? “Tasi, venexian”. Ovviamente faccio per te un’eccezione. Le ho contate: ho preso quasi sessanta pagine d’appunti. Quasi un block notes intero. D’accordo, scrivo largo e in fretta. Ed ho una calligrafia da ricettario medico o, se preferite, da gallina isterica. Difatti mi rileggo e non sempre indovino quel che mi sono appuntato. Vado allora a braccio. Saltando di palo in frasca. Magari mi dimenticherò qualcosa, ma Paolo mi ha raccontato la sua vita che è piena di cose belle e di gustosi aneddoti, di passione e di tanto amore, che non basterebbe un libro per ricordarle tutte. E’ la storia di un ragazzo del sessantuno, scorpione, come Camilla e Virginia, che pensa positivo e dorme poco o nulla: anche solo quattro, cinque ore a notte. “Altrimenti dove trovo il tempo per fare tutto?”. Figlio di Pietro, “e io Paolo”, e di Laura, “o ti studi o non ti va all’allenamento”. Cresciuto tra tante donne con la sorella maggiore, Lorena, che gli ha fatto da seconda mamma. Trevigiano nato e vissuto dentro le mura. Settanta voli all’anno per vent’anni di brillante carriera di manager in giro per il mondo. “Ma moglie, casa e famiglia sempre a Treviso. Né ho mai perso una recita delle gemelle”. Ovviamente il rugby anche prima del basket e quindi il terzo tempo nel dna prima di scoprire che la palla non può essere che rotonda. Ma questo lo penso io, non lui di certo. Anche ottimo sciatore. Al punto da rinunciare ad una trasferta con la prima squadra a Cremona. “Erano in nove, avrei dovuto fare il decimo. De Sisti telefona il sabato a casa, risponde mia madre. C’è Paolo? “No, xé via, torna domani”. In verità la domenica avevo una gara di sci a Ravascletto, in provincia di Udine”. Trasecolo: un “ceo” che racconta una bugia a Busia? Mi sembra impossibile: dai, dimmene un’altra. “E difatti il giorno dopo Mario mi sgama perché legge sul Gazzettino questo titolo: Vazzoler vince il gigante della Carnia. Mi convoca allora in sede e mi intima: “Dammi la borsa: con la Liberti hai chiuso”. No, la prego: piuttosto la smetto di sciare. Lo giuro. E così ho fatto”. Il grande Mario De Sisti, detto Busia: l’ho sentito di recente commentare una partita in tv da Ferrara. Dove ancora insegna pallacanestro come Dio comanda. Dai, organizza una cena con lui: ho voglia di vederlo. “Come no? Molto ma molto volentieri. Magari dopo i playoff. Alla Pasina. Aveva De Sisti una capacità tattica incredibile: preparava le partite come un orologio svizzero. Hai ragione: era un grande. Allenatori così non ne nascono più”. Già, si è rotta la macchinetta. “Lui mi ha fatto diventare uomo in palestra, ma oggi i ragazzini farebbero fatica a capire la sua durezza, i suoi faccia a faccia, e a reggere uno stress del genere”. Concordo al cento per cento. E addento uno scampo crudo smettendo di prendere appunti e pensando che il mio amico Nico monterà su tutte le furie quando leggerà che gli ho tenuto nascosto questo delizioso ristorantino di pesce consigliato dalla Guida Michelin ma per fortuna un po’ fuori mano. Ero piccolo e magro. E pure molto timido. Mi confessa. Però De Sisti lo fece debuttare che non aveva ancora diciott’anni nella Liberti Treviso promossa in A2. “Probabilmente avevo più talento per lo sci che per la pallacanestro”. Di sicuro aveva più cuore. Che conta spesso più del talento. E nel motore tanta benzina e tanto olio di gomito. “Forse perché temevo che si accorgessero un giorno per l’altro che ero un giocatore di basket sfigato”. In più la fortuna d’avere sempre avuto ottimi maestri. Vado a memoria: De Sisti, anche una stagione a Gorizia e le ultime tre a Venezia, e poi il Topone Pasini, il dottor Di Vincenzo, il mitico McGregor, “quando Treviso mi mandò un anno in purgatorio a Perugia”, il Barone Sales e Pero Skansi. Già, si è proprio rotta la macchinetta e la mamma non ne fa più d’allenatori in Italia così bravi. O forse sono io che, invecchiando, enfatizzo quei tempi eroici assieme ai quali sono cresciuto come giornalista. Mentre Paolo è cresciuto come uomo. Per merito di Busia e della nostra pallacanestro. Capitano della Benetton e della Reyer. Come dire? Una scarpa e uno zoccolo. Ma nessuno per carità s’offenda: l’ho detto solo per paradosso e per sottolineare come gli estremi a volte si toccano e si piacciono. Extremitates, aequalitates. Dicevano i latini. Che anche Paolo ha studiato allo scientifico di Treviso. “Al Leonardo da Vinci. Dal quale sono uscito con bel 60 sessantesimi”, ricorda con orgoglio. Otto anni in A1. E ben quattro promozioni dalla A2. Più un titolo mondiale con la nazionale militare a Dakar e uno italiano universitario all’Arsenale di Venezia. “Di cui ancora mi vanto”. In finale contro Milano. Siamo al risottino di pesce, proprio per chiudere in bellezza. Un delirio. E intanto me ne ha già raccontate un mare di cose. A proposito: perché un anno di purgatorio a Perugia? “Perché Massimo Mangano ascoltò dal soggiorno i nostri discorsi con l’orecchio appoggiato alla canna fumaria che comunicava col caminetto della taverna nella quale ci eravamo radunati di nascosto al piano di sotto”. E tu eri a capo di quel complotto? “Io ero uno dei senatori assieme a Ferracini, Benevelli, Pressacco e Marietta. Volevamo solo autogestirci e non ribellarci”. E io dovrei crederti? “Anche no. Fatto sta che a fine campionato, nonostante il salto in A1, Mangano ne mandò via otto di noi. E retrocessero”. Rido assieme a lui di gusto. Anche perché, raccontato dal presidente della Treviso Basket, è un aneddoto che vale il doppio: una cena e un altro pranzo. Come minimo. E, prima o poi, un altro articolo. In questo, del resto, proprio non ce la faccio a mettere dentro tutto. Nemmeno sotto vuoto spinto. Né posso tralasciare quello che Paolo mi ha detto di Riccardo Sales: “Per cinque anni è stato un padre al quale tutti noi del blocco storico della Benetton abbiamo voluto un bene del mondo. Al punto che per due Capodanno di fila gli abbiamo chiesto di passarli con le nostre famiglie e lui ha accettato come non credo sia mai successo da altri parti. Neanche in una squadra di rugby. Eravamo un gran bel gruppo, quello che assomiglia di più alla Treviso Basket di oggi”. Un solo rammarico e cambio discorso: altrimenti chi lo butta giù questo groppo dalla gola? Neanche uno sgroppino con la vodka, il bicchierino della staffa che ci offre Luciano. Paolo non ha mai vinto uno scudetto. Nemmeno il primo, nel 1992, con Skansi, Del Negro e Kukoc. “L’anno prima c’erano già Pero e Vinny. Non ancora Toni. Uscimmo ai quarti di finale battuti dal Messaggero di Radja, Bianchini e Premier. Dicevano che Skansi non aveva voglia di lavorare. Un’infamia: in allenamento ci massacrava ed era molto esigente. A giugno si sposa Del Negro che m’invita al suo matrimonio a Charlotte. Io ero il capitano di Villalta e Generali. Sul jet privato di Benetton c’è posto per undici. Non per mia moglie o per un altro giocatore. Te la faccio breve: nessuno mi disse niente, né all’andata né al ritorno, ma avevano già deciso. Quando lo venni a sapere, ci rimasi da cani. Non gioco più, giurai. Poi De Sisti mi fece cambiare idea: “Saresti uno sciocco a smettere a 29 anni: vieni piuttosto con me alla Reyer”. Io a Venezia? Sarei un matto”. E invece. “Per tre partite al Taliercio mi urlarono dietro di tutto. Bastardo trevigiano era la più carina. Poi capirono che Vazzoler, come aveva difeso il verde castello, avrebbe difeso con le stessi armi anche quello granata”. E così fu. “A fine stagione loro vinsero lo scudetto e noi, il giorno dopo, i playout a Varese. E fui portato in trionfo dai tifosi veneziani”. Laureato in economia aziendale a Trieste, dopo Ca’ Foscari, con una tesi sul franchising in Sisley e Stefanel, nelle quali avrebbe poi lavorato, Paolo ha avuto una carriera di successo da manager ad alto livello anche superiore a quella di capitano di lungo corso a Treviso e a Venezia. Questo non lo dico solo io, lo pensano un po’ tutti in Piazza dei Signori. Ed ecco allora spiegata anche la sua clamorosa affermazione come presidente di una società che da zero, e senza una lira in tasca, in tre anni è volata dal campionato di promozione all’A2 vincendo la Silver davanti a Ferrara e giocando i playoff per un posto in A1. Dove merita di stare Treviso. Alla faccia di chi sappiamo benissimo, ma non voglio ora rovinarmi la cena, né a lui avvelenare la festa. De minimis non curat praetor. Il latino – l’ho già detto – lo conosciamo entrambi. Oggi infatti la sua città è in festa. E il suo basket non è morto assieme a tutti i filistei. Come si augurava qualcun altro. E’ tornata invece a giocare al Palaverde pagando a Gilberto Benetton le piccole spese d’affitto. Ha il palazzetto sempre tutto esaurito, come neanche ai tempi dell’Eurolega. La De’ Longhi è uno sponsor affidabile e generoso. E non vi devo dire chi l’ha trovato. Il Pilla guai a chi ce lo tocca. Come del resto i deliziosi Andrea Gracis e Giovanni Favaro ai quali Paolo ha consegnato a occhi chiusi le chiavi del club. Tanto più che adesso lavora a Milano in qualità di direttore generale della Pirelli Pzero scarpe e abbigliamento, che va che è un piacere, e lui è via dal lunedì mattina al venerdì sera. Ma queste sono tutte cose che magari già sapete. Non però che la società era stata il mese scorso multata di duemila euro per l’uso di un laser al Palaverde da parte di un monello. Ebbene chi ha pagato la multa? I Fioi della Sud. Che hanno raccolto quattromila euro. E il resto? Tutto in beneficenza. E allora adesso anche capirete perché l’amatissimo presidente si unisce a loro in curva e intona con il megafono il canto d’amore infinito di Treviso per la pallacanestro. “Da quando sono nato, io tifo per te”. Ed è un uragano d’applausi. Ultrameritati.