Al via il Ghiro d’Italia: chi sarà il primo dei dopati?

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Oggi è partito il Giro. Da dove? Da una cittadina dell’Olanda di cui non ricordo più il nome. Lasciatemi andare a vedere: a Apeldoorn. Che è il paese più piovoso dei Paesi Bassi: cominciamo bene. La mia bici è appesa lì ad un chiodo nel garage di casa da parecchio tempo. Con le gomme sgonfie e un paio di dita di polvere sul sellino. Totalmente disamorato del ciclismo. E invece quei poveri cristi dovranno sciropparsi ben 3.463 chilometri in 23 giorni. Dei quali appena due di riposo: a Catanzaro e a Bressanone. Due lunedì, come le parrucchiere e i barbieri. E pedala, pedala: arriveranno anche in cima al Colle dell’Agnello (2.744 metri) e in una volta sola scollineranno Pordoi, Sella, Gardena, Campolongo e Valparola per raggiungere Corvara da Alpago. Ma chi gliela fa fare? In macchina ci si impiegherebbe meno di due ore. Forse il montepremi di un milione e 366 mila euro, dei quali 205.668 alla maglia rosa di Torino? Per la verità neanche pochi, ma è Mamma Rosa che si deve soprattutto arricchire. Ad ogni partenza e arrivo di tappa Rcs Mediagroup intasca infatti un bel po’ di soldini. Dei quali non parla mai nessuno. Come del resto nessuno è obbligato a pensarla come me del Ghiro d’Italia. Ci mancherebbe altro: non voglio togliere una goccia di poesia alla vostra cristallina passione, però nemmeno rompere il disincanto di questo momento è un peccato poi così grave. Anche se i racconti di Claudio Gregori sulla Gazzetta ancora mi prendono. Come quelli di Gianni Mura al Tour de France. Ma non posso neanche dimenticare che quando Bjarne Riis nel 1996 vinse la Grande Boucle, e io c’ero a Parigi, interrompendo il record di cinque successi consecutivi di Miguel Indurain in giallo, era già chiamato Monsieur 60 per cento con chiaro riferimento al suo tasso d’ematocrito abbondantemente fuori norma. E comunque non venne mai beccato positivo ai controlli antidoping. Nonostante lo stesso danese undici anni dopo, a reato cioè prescritto, abbia candidamente ammesso d’aver assunto Epo e pure cortisone e somatropina in dosi da cavallo. Né vi auguro mai di dormire nello stesso albergo di una squadra del Giro d’Italia perché sareste svegliati nel cuore della notte dal rumore infernale delle pedalate sui rulli dei corridori che così sciolgono il sangue troppo denso e quindi a rischio di trombosi. Acqua passata. Dite? Oggi in verità c’è anche il doping meccanico. Ossia di motorini che aiutano a far meno fatica. Specie in salita. Oppure provate a leggere, e poi sappiatemi dire, il libro di Danilo Di Luca, il primo italiano squalificato a vita perché trovato due volte positivo: la prima al Cera, la seconda all’Epo. Basta il titolo inquietante: Bestie da vittoria. E il sommario in copertina che ha incuriosito anche le Iene: nel ciclismo tutti sanno la verità, ma la verità è inaccettabile. E ancora: è impossibile non fare uso di doping e arrivare nei primi dieci al Giro d’Italia: tutti i ciclisti sono dopati. Evviva. Di Luca venne soprannominato il killer di Spoltore quando vinse il 90° Giro, quello del 2007, dopo la Milano-Torino e la Liegi-Bastogne-Liegi. Le classiche 33 righe dello Scacciapensieri le ho di nuovo largamente superate. Solo una nota di cronaca allora: la prima maglia rosa di questo Giro è l’olandese Tom Dumoulin che nel pomeriggio si è imposto nella crono di nemmeno dieci chilometri sul circuito di Apeldoorn. Lo seguiva dall’ammiraglia della Giant il suo sovrano, Guglielmo Alessandro. Viva il re. Ma quando scoppierà il primo caso di doping? Spero non tanto a breve. Perché non ne vorrei proprio più parlare.