Addio caro Bruno, giornalaio e amico di tutti noi ragazzi di piazza Ferretto

piazza ferretto 66L’ho scoperto stamattina, leggendo la Nuova Venezia, come si chiamava Bruno. O, meglio, per la verità avevo dimenticato il suo cognome. Forse perché per me e per tutti i ragazzi della piazza era Bruno Panetton e non Bruno Gianello. Un pezzo d’uomo, grande e grosso, soprattutto buono. Al quale non si poteva che voler bene. Era il giornalaio di Piazza Ferretto. A fianco del duomo. Davanti al giardino di San Lorenzo. Tra Cianchi il fioraio e Fontanella, il bar del centro di una Mestre che stava crescendo male e che sarebbe cresciuta ancora peggio. Ricordi vivi e ancora cari. Anzi, molto dolci. Come il gelato di Fontanella al gusto di malaga: io prendevo sempre quello, seduto al tavolino con gli amici nelle sere d’estate. Quando lì ci si vedeva prima e dopo cena e si bighellonava sino a notte fonda. Quando non si andava a Jesolo in cinquecento e si faceva la colletta per mille e cinquecento lire di benzina. Quando Mara Venier era la più bella della piazza e prima che a diciassette anni diventasse mamma di Elisabetta. Quando c’erano ancora le filovie gialle e il centro non era chiuso al traffico. Perché lo chiamassero poi tutti Panetton anche questo non me l’ero mai domandato prima d’oggi. Forse perché emergeva solo il suo faccione con pochi capelli in testa tra locandine, giornali e riviste nel chiosco in legno. O forse perché era una pasta d’uomo come il dolce con le uvette e i cedrini. E comunque a Bruno non piaceva che lo chiamassimo Panetton. Né a sua moglie, la cara Bertilla. Che domani lo accompagnerà al camposanto. Dietro casa. Coi figli e i nipoti. E ci sarà tutta la vecchia Mestre. Che non era in fondo poi così brutta. Almeno adesso che i ricordi mi sommergono e ricordo che Bruno ogni mattina mi aspettava con la Gazzetta e il Giorno in mano e me li porgeva al volo. Sei sempre in ritardo, brontolava. Ma corri perché altrimenti perdi il pullman. Della Svet. Che mi avrebbe portato a Treviso. Al liceo classico Pio X. Quando già sognavo di fare da grande il giornalista sportivo. Come il cugino di mia madre, Roberto Bortoluzzi. Sì proprio lui: il mitico inventore di Calcio minuto per minuto e di “scusa Ameri, ti prendo la linea dallo studio per cederla subito a Torino”. Dove col cuore in gola speravo che avesse segnato la Juve. Bruno era invece un’interista sfegatato. Uno dei pochi ai quali sono riuscito a voler bene. Andava matto per il Mago Helenio Herrera, per Mariolino Corso più che per Sandro Mazzola. E aveva mal sopportato che il suo capitano, Armando Picchi, fosse finito ad allenare i gobbi. Nella primavera del ’64 era stato al Prater di Vienna a vedere la Beneamata vincere 3-1 la prima Coppa dei Campioni con il Real Madrid di Puskas e Di Stefano. Era l’Inter di Sarti Burgnich Facchetti Tagnin Guarnieri Picchi Jair Mazzola Milani Suarez Corso. Snoccialandoli tutto d’un fiato. Il giorno dopo Bruno girava in bicicletta per piazza Ferretto sventolando la bandiera nerazzurra ed era l’uomo più felice della terra. Nel ’67 l’Inter perse invece inaspettatamente la finale di Lisbona con il Celtic e nella notte allora gli dipingemmo l’edicola col verde dei quadrifogli scozzesi. Se so chi è stato, lo strangolo. Urlava che lo sentivano sino alla Torre dell’orologio. E noi ridevamo, nascosti dietro le colonne. Riposa in pace e ti sia lieve la terra, Bruno. Così avrebbe scritto anche Giuàn Brera fu Carlo, indiscutibilmente il tuo preferito.